«La tenerezza è usare gli occhi per vedere l’altro, usare le orecchie per sentire l’altro, per ascoltare il grido dei piccoli, dei poveri, di chi teme il futuro; ascoltare anche il grido silenzioso della nostra casa comune, della terra contaminata e malata. La tenerezza significa usare le mani e il cuore per accarezzare l’altro. Per prendersi cura di lui. La tenerezza è il linguaggio dei più piccoli, di chi ha bisogno dell’altro. Questa è la tenerezza: abbassarsi al livello dell’altro. Anche Dio si è abbassato in Gesù per stare al nostro livello. Questa è la strada percorsa dal Buon Samaritano. Questa è la strada percorsa da Gesù, che si è abbassato, che ha attraversato tutta la vita dell’uomo con il linguaggio concreto dell’amore». Ascoltando queste parole di papa Francesco, è iniziata la veglia diocesana di avvento, organizzata venerdì 13 dicembre nella parrocchia Cristo Divino Lavoratore, dall’Ufficio di Pastorale giovanile.
Il tema della veglia è stata la tenerezza di Dio, che viene incontro all’uomo e, subito dopo le parole del Papa, tre giovani hanno letto alcune parole di don Luigi Verdi, fondatore e responsabile della Fraternità di Romena: «Il massimo non è l’amore generoso, il massimo è l’amore delicato e rispettoso. E questo è raro, questo è difficilissimo. Sapere quando dire una cosa o non la dire, sapere quando “invadere” o non “invadere”. La tenerezza non è tanto l’amore, quanto un particolare, delicato, silenzioso, nascosto aspetto dell’amore. La tenerezza è l’attenzione per la cura segreta del padre verso il figlio prodigo. La tenerezza è Cristo che parla a quella samaritana e non la rimprovera ma la chiama donna come sua madre, e con lei parla delle cose più alte del mondo, non parla di stupidaggini o di peccati, parla delle cose più alte del mondo. La tenerezza è Cristo con l’adultera, verso cui tutti puntano il dito e lui invece dice “Nessuno ti ha condannato, nemmeno io. Vai e riprendi a vivere”».
Durante la veglia è stato letto anche il brano del Vangelo secondo Matteo (Mt 1, 18-25) e l’Arcivescovo Angelo Spina ha fatto una riflessione su san Giuseppe, segno carnale della tenerezza di Dio nei confronti di Maria, di Gesù, ma anche di tutta l’umanità. «L’avvento – ha detto l’Arcivescovo – è il tempo dell’attesa e della speranza. Nel Vangelo di Matteo si parla di Giuseppe, l’uomo giusto che incarna la tenerezza. Nel momento in cui scopre che Maria è incinta, non capisce nulla di quello che sta accadendo e, nonostante ciò, non la colpisce. Questa è la tenerezza: non capisco ma non colpisco. Nel sogno, poi, un angelo dice a Giuseppe di non temere. La stessa cosa dice Gesù a noi: ci dice di non aver paura e di fidarci di Lui, come i bambini si fidano delle mamme che li tengono in braccio. Giuseppe si desta dal sonno e fa come l’angelo gli aveva ordinato, e prende con sé la sua sposa. Il nome di Giuseppe significa “Dio aggiunge”. Dio alla vita di Giuseppe non gli toglie nulla, ma gli aggiunge una sposa che è vergine e madre, un bambino che non ha generato ma a cui fa da padre, e la tenerezza che si traduce in custodia. Giuseppe è il custode di Maria e di Gesù. Grazie Gesù perché tu vieni e non togli, ma aggiungi, doni speranza, ali d’aquila, e ci fai volare in alto».
Terminata l’omelia, l’Arcivescovo ha esposto il Santissimo Sacramento per l’adorazione eucaristica e ha introdotto la liturgia penitenziale. Dopo il tempo per le confessioni individuali, che sono state accompagnate dalla lettura di alcuni testi di spiritualità e da alcuni canti, la veglia è terminata con la benedizione eucaristica.
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