Il tempo del coronavirus è per tutti un lungo “venerdì santo” vissuto con profonda sofferenza. Sofferenza per i malati, per i morti, per i loro familiari, per la terribile prova a cui sono sottoposti i medici, i paramedici, sofferenza per la prova che tutto il Paese sta vivendo. Sofferenza per chi ha responsabilità di governo, i lavoratori, le imprese, l’intera economia. Ma oltre a queste sofferenze ce n’è un’altra ancor più grande, quella di non poter celebrare l’Eucaristia con il popolo, anche se la fede resta viva, alimentata dalla preghiera personale e in famiglia e dall’ascolto della Parola di Dio. Molti si sono chiesti se questo virus è un castigo. La risposta è no. Non è un castigo. Gesù in più occasioni ha chiarito che non c’è un rapporto fra la colpa commessa e il male subito. Nello stesso tempo, però, ha detto: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,3-5). In altre parole: Dio non è all’origine del male, ma si serve di esso per la correzione del suo popolo. In questo senso certamente anche il Coronavirus è un richiamo di Dio, a chi crede e a chi non crede, affinché il nostro sguardo e la nostra mente riconoscano Dio, il fine trascendente della nostra vita, ciò che è essenziale e ciò che è passeggero.
Nel buio di questo lungo tempo di “venerdì santo” è emersa tutta la fragilità dell’uomo e dell’umanità. Ci si sentiva potenti e onnipotenti, padroni di ogni cosa. Ci si è scoperti semplici vasi di creta che si frantumano all’urto di un virus invisibile che va dove vuole senza frontiere e senza muri di razze, di culture, di religioni. Nelle tenebre più fitte è emersa con tutta la forza la luce della vita. Tutti vogliono vivere. É emersa la forza dell’amore, nessuno ce la può fare da solo, c’è bisogno di solidarietà, di aiuto. É emersa la forza delle relazioni autentiche. Sui social corrono frasi significative e dovunque si ripete: “Ce la faremo”. Sì, insieme ce la faremo perché il cammino dell’uomo è verso la Pasqua di luce e di resurrezione. Le luci che già si intravvedono sono quelle della fede di un popolo che ancor più risalta in questo tempo di privazione della santa Messa, delle famiglie che si radunano a pregare, degli educatori saggi che sono in contatto quotidiano con i loro ragazzi attraverso i social, di sacerdoti che offrono la vita per le proprie comunità, di donne e di uomini che rischiano per dare aiuti concreti a chiunque è nel bisogno.
Ma non è mai possibile disgiungere la cura del corpo dalla cura dell’anima, sapendo che il corpo è mortale e che verrà trasfigurato oltre la morte. Se noi abbiamo cura del corpo senza cura dell’anima, ci occupiamo di qualcosa che passa. Se abbiamo cura dell’anima, questa ci porta anche ad aver cura dei corpi. La Chiesa ha creato gli ospedali proprio perché ha sentito che non si potevano mai separare corpo e anima. La Pasqua di resurrezione è la luce nuova che entra nella nostra vita. Cristo Risorto dona la vita in pienezza e noi guardiamo a lui, grati per il dono di questa vita da custodire, curare, ma soprattutto per il dono di una vita “altra” che solo Lui, con la sua morte e risurrezione, ha portato. Guardando a Lui camminiamo con speranza. Con Lui Risorto “ce la faremo”. Per risorgere siamo chiamati a donare la vita, a donare noi stessi: solo così smetteremo di essere morti che credono di essere vivi e, finalmente, respirare la vita. La vita che genera nell’accettare la morte da parte del seme, nel donarsi totalmente; la vita che sa di essere stata generata dal dono di un Altro e non dal caso bizzarro. Pasqua è questo: niente è più come prima perché il Signore della Vita ha vinto. Buona Pasqua di resurrezione.
+ Angelo, Arcivescovo