Cari amici, fratelli e sorelle nelle fede, sono trascorsi milleseicento anni da quando Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio, donò il corpo di San Ciriaco alla città di Ancona, da allora e nel corso dei secoli San Ciriaco e Ancona sono un binomio inscindibile. La presenza delle sue spoglie mortali e la cattedrale sulla sommità del colle Guasco sono per tutti un faro di luce che illumina la nostra terra e il nostro mare e ci porta a guardare il cielo.
La solennità in questo anno cade nel tempo del coronavirus, che ci tiene chiusi nelle nostre case, seminando angoscia e paura nei nostri cuori. La situazione che il mondo sta vivendo mette duramente alla prova ogni essere umano e quindi, in quanto anch’essa realtà umana, la comunità cristiana. Un tempo difficile per tutti che pone forti interrogativi alla ragione e alla fede. È bastato il più piccolo e informe elemento della natura, un virus, a ricordarci che siamo mortali, che le tecnologie più raffinate e potenti non bastano a salvarci, e sperimentiamo anche i limiti della scienza. In questo momento la domanda della fede, più che farci chiedere dov’è Dio, dovrebbe porci l’interrogativo: Chi è Dio? In quale Dio crediamo? Dio di cui ci parla Gesù è Padre, così lo chiama: «Abbà», padre, proprio nel momento della maggior sofferenza, di fronte alla prospettiva della croce (cf. Mc 14,36). Un Dio che Gesù incarna nella sua umanità e, in modo tutto speciale, nella sua compassione verso l’altro. Le domande della ragione e quelle della fede ci fanno cogliere meglio che quella che oggi stiamo vivendo è certamente un’ora di crisi; “crisi” nel senso profondo della parola, dal greco “giudizio”: un’occasione cioè per operare un giudizio sulla realtà e sulla nostra vita, e per compiere delle scelte. È anche un’ora “apocalittica”, ma nel senso biblico del termine: non cioè “distruzione”, ma “rivelazione”. In quest’ora della storia, il Signore ci rivela quello che siamo veramente e ciò in cui realmente crediamo. Questa “crisi” e questa “apocalisse” si possono trasformare in un’opportunità che ci aiuta a confidare meno nelle nostre forze, ad abbandonarci all’aiuto che viene dal Signore, e ad essere più solidali gli uni verso gli altri.
Sappiamo dalla storia che Ciriaco, il cui primo nome era Giuda (di origine ebraica) venne invitato dall’imperatrice Elena a svelare il luogo dove era la vera croce di Cristo, e dopo pressioni e insistenze lui cedette a tale richiesta. La croce venne ritrovata, “l’inventio crucis” come viene definita. Di fronte al ritrovamento Giuda si convertì al cristianesimo. Chiese il battesimo. La croce per lui non era più uno scandalo, il segno del supplizio, ma il segno dell’amore, della salvezza. Venendo battezzato cambiò il nome da Giuda in “Kyriakòs” (dal greco Kyrios, che significa del Signore).
San Ciriaco oggi invita tutti noi a guardare la croce a cui fu appeso il Cristo salvatore e redentore del mondo. In mezzo alla tempesta che stiamo attraversando a causa del coronavirus la croce risveglia la nostra fede, la nostra speranza. Abbiamo un’àncora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva. Cristo crocifisso e morto per i nostri peccati è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.
San Ciriaco si è affidato a un Dio crocifisso e risorto e questo gli ha dato speranza forte anche per affrontare il martirio. Guardando San Ciriaco siamo invitati a non coltivare aspettative fondate su calcoli e proiezioni, ma ad essere uomini e donne di speranza, speranza che non è un semplice ottimismo, ma pur nelle difficoltà della vita, nelle realtà difficili avere la forza di guardare in una direzione e camminare insieme perché ci affidiamo alla promessa di Dio e questo ci fa avere stima di ogni persona che abita questa terra.
Non è il futuro il principio della speranza; crediamo piuttosto che sia la speranza il principio del futuro. Lo sguardo cristiano sul futuro non è una forma di ingenuità per essere incoraggianti per partito presto, piuttosto è l’interpretazione più profonda e realistica di quell’inguaribile desiderio di vivere che, incontrando la promessa di Gesù, diventa speranza. Non un’aspettativa di un progresso indefinito, come l’umanità si è illusa in tempi passati; non una scoraggiata rassegnazione all’inevitabile declino, secondo la sensibilità contemporanea; non la pretesa orgogliosa di dominare e controllare ogni cosa, in una strategia di conquista che umilia le persone. Piuttosto la speranza: quel credere alla promessa che impegna a trafficare i talenti e a esercitare le proprie responsabilità per portare a compimento la propria vocazione. Il cristiano, sia esso uomo o donna, è una persona di speranza, che spera che il Signore torni. Tutta la Chiesa, è in attesa della venuta di Gesù. Gesù tornerà. E questa è la speranza cristiana.
Se la speranza è il principio del futuro allora siamo chiamati a non ripiegarci su noi stessi e ad avere ferma speranza. Potremmo con un’immagine cogliere l’importanza della speranza se pensiamo ad un arco e a una freccia. Se l’arco non si tende, se la freccia non viene spinta in avanti da una forza tutto rimane fermo. Ma se l’arco viene teso e la freccia scoccata allora va avanti a raggiungere il bersaglio. Questa forza è la speranza. Se la fede è il fondamento e la carità il compimento, la speranza è ciò che le tiene in un dinamismo fecondo che elimina l’abbattimento, lo scoraggiamento e i facili ed euforici ottimismi. Questo ci permette di avere speranza nella vita che nasce, da difendere, custodire, grazie ai genitori che generano la vita e se ne prendono cura.
Speranza nei ragazzi e ragazze, primavera della vita, nella loro crescita effervescente ma anche burrascosa che richiede sostegno dai genitori nell’alto compito educativo. Speranza nei giovani bravi “scalpellini” dei loro sogni, perché sappiano trasformare le pietre in opere d’arte e con le loro idee e la loro giovinezza, nell’era delle connessioni, siano costruttori di ponti e non gli venga rubata la speranza.
Speranza negli uomini e nelle donne che si vogliono bene, che sono così liberi da impegnarsi per tutta la vita dando inizio alla famiglia, cellula di cui la società non può fare a meno. Dare futuro alla famiglia con sostegni adeguati e favorire le alleanze generazionali tra genitori e figli, nonni e nipoti promuovendo quella rete preziosa di affetti che, con le fatiche e le sofferenze quotidiane, tessono vie di cammino sicuro.
Speranza nel lavoro che dona dignità alla persona umana. La mancanza di lavoro, la disoccupazione, la mancanza di sicurezza, la retribuzione non adeguata, possono spegnere la gioia e aprire il futuro a una condizione di miseria, ma l’intelligenza e l’intraprendenza di tanti imprenditori, quella di tutti i lavoratori uomini e donne impegnati e creativi, aprono sentieri di speranza.
Speranza in una società aperta dove le diversità per provenienza, lingua, cultura, religione, sono una ricchezza nella convivialità delle differenze.
Speranza nel nostro pianeta, la casa comune di cui prendersi cura con la sostenibilità ambientale. I giovani ci stanno dando un esempio e i saggi ci stanno invitando a essere vigili, indicandoci percorsi per rimediare ai disastri causati da una avidità ottusa che saccheggia il pianeta ferendolo in modo irrimediabile.
Nel tempo del Covid-19 la speranza porta i nostri sguardi in avanti e ci invita ad essere prossimi, in poche parole a “prenderci cura” delle persone nella loro singolarità, nella loro umanità. Prendersi cura dell’altro significa guardare alla salute, all’igiene, all’alimentazione, alla lotta contro la povertà, all’istruzione, al lavoro, alla cura del creato. Lasciamo alla generazione che verrà un mondo, se necessario, più povero di cose e di denaro, ma più ricco di umanità. Non dobbiamo tornare indietro, quando sarà passato questo momento. Nella Bibbia per 365 volte risuona questo saluto divino: «Non avere paura». San Ciriaco non ha avuto paura di affrontare le avversità e il martirio perché si è lasciato abitare dalla Speranza. A chi ha perso la fede o non ha il dono della fede mi sembra significativo riportare le parole dello scrittore Garcìa Màrquez, premio Nobel per la letteratura: «Sfortunatamente, Dio non ha uno spazio nella mia vita. Nutro la speranza, se esiste, d’avere io uno spazio nella sua».
Alle comunità parrocchiali e religiose, che in questi tempi non si sono sottratte alla testimonianza della carità, scoprendo forme di prossimità e di annuncio del Vangelo inedite, chiedo di continuare ad essere sentinelle di speranza tra le case del nostro popolo. I laici, in ragione del Battesimo, gustino la multiforme presenza del mistero di Cristo nella loro vita e nelle loro famiglie; i presbiteri accompagnino, con il loro ministero, questa rinnovata fioritura dello Spirito che la grazia di Dio sta già operando e dalla quale sapremo trovare nuova vita ecclesiale.
Oggi affidiamo a San Ciriaco la protezione della nostra Arcidiocesi, della nostra Città, affinché ci liberi da ogni male e ci indichi come vivere in terra, con speranza, per la via del cielo. Amen.
+Angelo, Arcivescovo