Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità”.
Lectio
Ci soffermiamo in modo particolare su questo testo che comunemente viene indicato come inno alla carità. Più che un inno è un elogio della carità. Il termine carità ricorre molte volte nel Nuovo Testamento, ben 167 volte. Il termine greco agape indica l’amore cioè l’esperienza intima, che poi viene tradotta con la parola carità che indica più l’aspetto relazionale. La parola “agape”, amore, va quindi intesa come benevolenza, amore oblativo, non si ama solo se stessi. E’ l’amore di Cristo che si dona e si offre per gli altri, è l’amore di Dio Trinità che tutto si dona alle sue creature.
Considerando la comunità di Corinto, l’Apostolo riassume con straordinaria lucidità e ricchezza il motivo della carità come cuore pulsante dell’essenza divina e dell’esistenza umana. Al vertice di tutti i carismi, anzi, alla meta verso cui tutti devono convergere, Paolo pone l’agape, cioè la carità, l’amore di donazione puro e assoluto. Egli inizia dipingendo l’uomo carico di ogni dote umana e spirituale, ma vuoto d’amore. Il dono delle lingue, la profezia, la conoscenza, la fede, la generosità eroica e il distacco dai beni, se sono privi dell’anima della carità, sono realtà fredde, esteriori, generano autoglorificazione o gesti spettacolari, ma non salvano, né ci salvano.
Il testo presenta una comparazione dell’amore: se parlassi, ma non avessi, ma anche una prospettiva rivelativa come se lo Spirito Santo dicesse: tu Paolo dici questo. La carità in questo caso è un decentramento, non è qualcosa che devi fare, ma è qualcuno che opera in te e ti porta a fare.
Il verbo “desiderare”, “aspirare”, fa da cornice a tutto il brano paolino.
Il testo ci presenta tre comparazioni: parlare le lingue degli uomini e degli angeli; avere il dono della profezia e della conoscenza scientifica e teologica; donare tutti i propri averi immolando perfino se stessi. E’ importante notare che Paolo qui non parla in astratto ma in prima persona (Se io… Se io…non sono nulla), quindi una carità vissuta in modo singolare nella sua persona. La conclusione è che anche i gesti di immolazione che rivelano una eroica solidarietà per gli altri potrebbero essere spinti da motivazioni meno nobili, se manca la carità, a nulla potrà giovare il dono della propria vita, in quanto la parola amore è ambigua, anche il demonio ama, ma ama solo se stesso.
L’Apostolo Paolo tratteggia la fisionomia del credente che <<ama>> secondo il modello di Gesù e usa una successione di quindici verbi che ora vediamo in particolare:
La carità è magnanime, nel senso di grandezza del cuore che accoglie il prossimo.
La carità è benevola, è costruttiva, indica la capacità di cercare sempre il bene nell’altro.
La carità non è invidiosa, cioè non guarda gli altri come se avessero di più, si accontenta di quello che ha, non genera rivalità e contrasto. L’invidia porta a concentrarci su noi stessi, mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia. Fa in modo di scoprire la propria strada per essere felici, lasciando agli altri che trovino la loro. L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità.
La carità non si vanta, cioè non cerca la vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama evita di parlare troppo di se stesso, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di mettersi al centro.
La carità non si gonfia di orgoglio. L’amore non è arrogante, non ci si ingrandisce di fronte agli altri. Alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e pretendono di controllare gli altri. C’è una bella immagine che usa papa Francesco, quella del pavone, che si fa grande con la ruota della coda per apparire, così appare da davanti, ma poi se lo si guarda da dietro la visione è diversa. La logica dell’amore cristiano non è quella di chi si sente superiore agli altri e ha bisogno di far loro sentire il suo potere, ma quella per cui <<chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore>> (Mt 20,27).
La carità non manca di rispetto. L’amore non opera in maniera rude, non agisce in modo scortese, non è duro nel tratto. I suoi modi, le sue parole, i suoi gesti sono gradevoli e non aspri o rigidi. La cortesia è “una scuola di sensibilità e disinteresse che esige dalla persona che coltivi la sua mente e i suoi sensi, che impari ad ascoltare, a parlare e in certi momenti a tacere”. Questo non è possibile quando regna un pessimismo che mette in rilievo i difetti, gli errori altrui.
La carità non cerca il proprio interesse. Cioè non cerca quello che è suo, perché “è proprio della carità voler amare che essere amati”, come diceva S. Tommaso d’Aquino. Gesù sottolinea:<<Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date>> (Mt 10,8).
La carità non si adira. Chi ama evita di reagire bruscamente di fronte agli altri. Dentro non conserva sentimenti che lo fanno mettere in difensiva davanti agli altri, come se fossero nemici fastidiosi che occorre evitare. Alimentare tale aggressività intima non serve a nulla. Ci fa solo ammalare e finisce per isolarci. L’indignazione è sana quando ci porta a reagire di fronte a una grave ingiustizia, ma è dannosa quando tende ad impegnare tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri.
La carità non tiene conto del male ricevuto. Il credente, pur nella consapevolezza del male che opera nella storia, don deve lasciarsi determinare da esso, in quanto l’ultima e definitiva parola spetta sempre alla carità. Il male che riceviamo non lo possiamo portare “annotato” su un taccuino come rancoroso. Questo fa male, logora dentro, uccide. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare le scuse per l’altra persona, come Gesù disse:<<Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno>>.
La carità non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. La carità non ammette che si faccia ingiustizia contro qualcuno, si compiace della verità. Vale a dire, si rallegra per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere. Quando una persona che ama può fare del bene a un altro, o quando vede che all’altro vanno bene le cose, lo vive con gioia e in quel momento dà gloria a Dio, si rallegra della felicità dell’altro.
La carità tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La parola che compare quattro volte è “tutto”. La carità tutto scusa nel senso che riesce a mantenere il silenzio circa il negativo che può esserci nell’altra persona. Non sparlare degli altri, non danneggiare l’immagine dell’altro. A volte ci si dimentica che la diffamazione può essere una grande peccato.
La carità tutto crede, cioè pone fiducia. Non c’è bisogno di controllare l’altro. L’amore ha fiducia, lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare.
La carità tutto spera cioè non dispera del futuro, perché tutto è nelle mani di Dio, che scrive diritto su righe storte.
La carità tutto sopporta, cioè sopporta con spirito positivo tute le contrarietà. Non nel senso di tollerare alcune cose moleste, ma in una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida. Manifesta una dose di eroismo tenace, di potenza contro qualsiasi corrente negativa, una opzione per il bene che niente può rovesciare. L’amore non si lascia dominare dal rancore, dal disprezzo verso le persone, dal desiderio di ferire o di fare pagare qualcosa.
L’amore non avrà mai fine, vale a dire non viene meno, non cade, rimane per sempre.
Poiché l’amore è divino, anzi è Dio stesso, esso non avrà mai fine: non può finire e resterà quando ogni altra realtà sarà finita. Cioè avrà raggiunto il suo fine. Cioè sarà ricapitolata in Dio. Insomma, alla fine ci sarà solo l’amore. Dio sarà tutto in tutti e tutto sarà in Dio. Cioè tutto sarà amore.
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