Domenica 5 luglio, all’Angelus, ha sorriso ancora una volta, dalla romana finestra sul mondo che da qualche settimana è tornata ad aprirsi anche se le soffocanti nubi della pandemia non si sono diradate del tutto.
E, ancora una volta, come ogni volta che incontra i tanti o i pochi, ha chiesto: «Per favore, pregate per me». Francesco è fatto così. E ha fatto così pure nel giorno in cui stava andando a operarsi al Gemelli, senza dircelo in quel momento. Anche se in quel momento avrebbe ben potuto annunciarlo, perché il Papa «preso quasi alla fine del mondo» è fatto così.
Ma non si vuol scrivere anche qui dell’operazione a cui papa Francesco è stato sottoposto, del problema fisico che – come tanti di noi – ha affrontato, del giusto colore e calore sul «Vaticano terzo», l’eccellente luogo di scienza e di medicina che lo ha accolto e che uomini e donne di fede (con buona pace di chi continua a opporre le une all’altra) continuano a costruire e a custodire. Qui si vuol scrivere di quella richiesta di preghiera, uguale e diversa dalle tante altre che Francesco, anno dopo anno, ci consegna con gentile e familiare semplicità. E non per ragionare sul clamore provocato e sui sentimenti – diciamo così – automaticamente mossi dalla notizia del ‘Papa in ospedale’, ma su ciò che ha suscitato e può ancora suscitare la conferma della naturale fragilità di questo Papa, ottantaquattrenne ma così ‘forte’ da farlo scordare a noi che lo seguiamo e lo ascoltiamo. Qui ci vuol soffermare su quella richiesta ripetuta, e nuova: «Per favore, pregate per me» Ogni volta che glielo sentiamo dire, a tanti di noi sembra un po’ strano che sia il Papa a chiedere preghiere a sostegno della propria umana debolezza e della necessaria forza nel ‘mestiere’ che è chiamato a svolgere. Il Papa, ovvero colui che guida il popolo che riconosce e prega quel Dio che Gesù Cristo ci ha pienamente rivelato. Il leader religioso – come si dice oggi – che più di tutti al mondo (in un mondo in cui ancora e sempre si prega in tanti modi diversi) ‘orienta’ la preghiera che unisce la terra e il cielo. Sembra strano perché parecchi di noi, soprattutto nel Nord del pianeta ricco e disperante, hanno dimenticato persino come si prega e, prima ancora, hanno perso il senso della preghiera (sino a confonderla con gli strumenti che l’accompagnano). Ma sembra strano anche perché un cattolico non dovrebbe aver bisogno di essere chiamato a pregare per il Papa, perché questa preghiera è il ‘regalo’ che la Chiesa – cioè le persone che la costituiscono e la rendono viva – fa da sempre al successore di Pietro. Non c’è liturgia o grande riunione comunitaria in cui non ci sia anche la preghiera per il Papa. Francesco però – e chi lo conosce da tempo, testimonia che questo accadeva pure prima che divenisse vescovo e, infine, pontefice – chiede insistentemente una preghiera personale a ognuno di noi. Un dono piccolo e grandissimo. E magari più di qualcuno l’ha preso come un invito di maniera.
Anche perché, nella mentalità comune, sono casomai gli uomini e le donne di Dio che pregano per noi. E per noi speriamo che preghino – come ripetiamo soprattutto in liete o dolorose occasioni solenni – i Santi e le Sante di Dio.
Eppure l’invito non è mai stato di maniera, e soprattutto ora non lo è. Sì, proprio adesso dovremmo saper rispondere come sappiamo e possiamo.
Nei giorni più terribili del coronavirus, papa Francesco ha pregato per noi come forse nessun altro. Ha trovato e seminato parole giuste e profonde per parlare a Dio e agli uomini e alle donne di ogni dove, ai cristiani e a coloro che nutrono altre fedi.
E ha trovato e seminato pensieri come preghiere buoni per tenere per mano coloro che non credono. Tante di quelle preghiere e tanti di quei pensieri in queste ore sono restituiti con gratitudine, e con affetto di figli e di fratelli. È giusto che il Papa lo sappia