La consolazione è stata al centro della XXXIV Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Mercoledì 18 gennaio, nella Facoltà di Economia, Mons. Angelo Spina e Vittorio Robiati Ben Daud, coordinatore del Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia, hanno approfondito il messaggio profetico di Isaia, al capitolo 40, “Consolate, consolate il mio popolo”. Un’occasione per rinnovare l’impegno a progredire nel dialogo e nella conoscenza reciproca, nel rispetto e nell’amicizia.
Dopo l’introduzione di don Valter Pierini, direttore dell’Ufficio diocesano per l’Ecumenismo, che ha letto il passo di Isaia, Vittorio Robiati Bendaud ha parlato della collocazione liturgica di questo brano di Isaia e ha spiegato che «nel calendario ebraico, si celebra d’estate un periodo speciale, particolarmente austero, di tre settimane, che inizia con un digiuno (il 17 di Tamuz) e finisce con un altro digiuno, ancora più rigoroso, quello del nove di Av. In questo giorno si ricordano le distruzioni del primo e del secondo Santuario di Gerusalemme e molti altri eventi luttuosi che hanno funestato la storia ebraica. Nel sabato che precede il 9 di Av si legge, con melodia struggente, il capitolo 1 di Isaia, quello della “Visione”, severa e minacciosa. Nel sabato successivo l’atmosfera cambia, è il momento della ripresa, della consolazione, il brano scelto per segnalarlo è proprio Isaia 40, che inizia con le parole Nachamù nachamù ‘amì, “Consolate, consolate il Mio popolo”». Questa volta la melodia è solenne e festiva». C’è dunque una precisa interpretazione storica nell’uso di quel brano. Il popolo di Israele, pur colpito da sciagure, sa che dopo il lutto viene la consolazione, la vita riprende, il legame con il Signore torna a esprimersi su toni più sereni, nell’attesa fiduciosa della completa redenzione.
Vittorio Robiati Bendaud ha dunque sottolineato che «ogni generazione ha delle sfide da affrontare, come guerre e povertà» e che il «profeta Isaia di fronte alla tragedia che il popolo ebraico sperimenta dice “Consolate, consolate il mio popolo”. Come consolare? Il testo continua con l’invito a riempite le valli e a spianare monti e colline. Non si tratta quindi di una consolazione emotiva passiva, ma di una strategia di azione. Consolare significa agire, cercare di resistere alla mancanza di senso, perché il lutto e la morte ci mettono di fronte alla mancanza di senso che paralizza. Per consolare bisogna trovare delle prospettive operative. Non serve a nulla inveire contro il buio e lamentarsi, è più sensato accendere una luce. Quando questa viene accesa, può accadere che quello che si vede è poco rassicurante e piacevole, eppure è importante essere operativi e costruttivi. C’è speranza perché tutti siamo capaci di fare piccole cose, ogni giorno».
È poi seguita la relazione di Mons. Angelo Spina che ha parlato dell’importanza di avere fiducia nel Signore, nonostante le difficoltà e le cose che non capiamo, e di essere uomini e donne di speranza che si prendono cura gli uni degli altri. «La stagione che stiamo vivendo, segnata dall’uscita dalla pandemia che per lungo tempo ha fiaccato la vita del Paese – ha detto – ci spinge a interrogarci a fondo sulla nostra presenza nella società come uomini e donne credenti in Dio. Il passo del profeta Isaia è un annuncio di consolazione per il popolo, chiamato a stare saldo nella fiducia che il suo Signore non lo abbandonerà: “Nahamù nahamù ‘ammì”, “Consolate, consolate il mio popolo” (Is 40,1). Possiamo avere fiducia nel futuro perché la Parola di Dio ci garantisce che Egli è fedele. Fondati in Lui, troviamo la forza per dar credito alla vita ed essere fiduciosi, perché ci sentiamo preceduti e “superati” dalla Sua azione. Dio, infatti, opera oltre le nostre stesse attese. Il testo di Isaia non tace il rischio della rassegnazione e della perplessità. Di fronte all’annuncio dell’iniziativa inattesa di Dio e all’invito a gridare, risuona l’interrogativo: «Che cosa dovrò gridare?» (Is 40,6). La domanda nasce dalla constatazione delle nostre fragilità, oltre che del nostro peccato: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come un fiore del campo» (Is 40,6). Certo, se guardiamo alle nostre forze, «veramente il popolo è come l’erba» (Is 40,8). Questi anni di pandemia, il dramma della guerra, la crisi energetica, ecologica ed economica, hanno messo a nudo le crepe delle nostre società, aprendo a potenziali inquietanti scenari di complessa interpretazione. Ci hanno fatto toccare con mano la nostra debolezza e ci hanno messo di fronte all’incostanza nel rispondere alla Parola di speranza che Dio rivolge alla vita.
Ma Isaia ci invita a guardare oltre, per scorgere la saldezza di qualcosa di incrollabile: la Sua Promessa. Se noi siamo come l’erba e come il fiore del campo, c’è una realtà che non viene mai meno: la Parola di Dio che rimane rivolta in eterno. Il profeta ammette che certamente l’uomo è come l’erba, «ma la parola del nostro Dio dura per sempre» (Is 40,8). Il Signore è sempre in attesa del nostro ritorno a Lui, per questo siamo chiamati a essere annunciatori di speranza. Consapevoli che Dio è tenace nel Suo amore, possiamo annunciarlo con gioia agli uomini e alle donne del nostro tempo. Egli costantemente ci ripete: «Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (Is 43,4). Apriamo dunque gli occhi. Dio agisce oltre noi, oltre le nostre comunità, come quando operò nel sovrano pagano Ciro (Is 45,1), che divenne strumento di liberazione nelle mani del Signore: Dio è all’opera nell’estraneo e nello straniero. Dobbiamo quindi impegnarci insieme in un lavoro di ascolto e di discernimento per trovare il Signore là dove sta operando, al di là delle nostre attese e dei nostri progetti. Usciamo per incontrare il Signore, che si muove oltre i nostri ristretti confini. In questo modo potremo diventare gioiosi testimoni di speranza per tutti. Nello spazio pubblico siamo chiamati a farci fiduciosi annunciatori di possibilità, “rabdomanti” alla ricerca di nuovi sentieri, di nuove opportunità per gli uomini e le donne del nostro tempo. Siamo desiderosi di collaborare per generare gesti concreti di pace e di solidarietà. Esploratori alla ricerca di strade inedite, con lo sguardo attento a discernere il nuovo che emerge».
L’Arcivescovo ha spiegato che «Dio ci guida a volte attraverso sentieri impervi. Dove ci sta portando? Non lo capiamo, non lo sappiamo, ma dobbiamo fidarci di Lui. Nella settimana enigmistica c’è un gioco che consiste nel collegare i puntini numerati con una penna per formare un disegno. All’inizio la figura che si formerà non si vede e con la penna andiamo da una parte all’altra del gioco per collegare i puntini. Così è il cammino della nostra vita: viviamo momenti particolari e non capiamo il perché, ma Dio è con noi e conosce il disegno». Mons. Angelo Spina ha anche sottolineato che consolare significa «stare con chi è solo. Se ti senti solo, sappi che Dio è con te perché ti ama. Dio sta con chi è solo e consola. E questa consolazione è duplice. È rassicurante dal punto di vista emotivo perché Gesù dice di non avere paura, ma c’è anche l’agire che è la sfida della nostra libertà e della nostra responsabilità. Cosa fare in questo tempo? La Parola di Dio e Papa Francesco ci dicono che questo è il tempo per diventare migliori, prendendoci cura l’uno dell’altro. Questa è una consolazione di speranza».
Pubblichiamo la relazione integrale dell’Arcivescovo Angelo Spina: Giornata per la conoscenza dell’ebraismo – 18 gennaio 2023 – Facoltà di economia Ancona
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