Delegazione diocesana a Roma per la prima assemblea sinodale

Si è aperta oggi, 15 novembre, la prima assemblea sinodale delle Chiese in Italia, una delle tappe della “fase profetica”, ultimo tratto del Cammino sinodale nazionale. Oltre mille delegati e Vescovi si sono ritrovati a Roma, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, per confrontarsi sui Lineamenti (il testo che raccoglie i risultati finora raggiunti e propone alcune traiettorie pratiche) per poi giungere allo Strumento di lavoro, in vista della Seconda Assemblea sinodale in programma, sempre a Roma, dal 31 marzo al 4 aprile 2025. Anche la delegazione diocesana, guidata da Mons. Angelo Spina, sta partecipando all’assemblea a Roma. Con lui i referenti dell’equipe diocesana Lucia Panzini e Daniele Sandroni e due membri dell’equipe Tiziana Nicastro e Paolo Pizzichini.

Card. Matteo Zuppi

Pubblichiamo l’intervento introduttivo del Card. Matteo Zuppi, Presidente della Cei, alla Prima Assemblea sinodale.

Carissimi e carissime, benvenuti!
Saluto i fratelli Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici e le laiche. Quanta gioia! È un’icona di Chiesa, di persone che si ritrovano, pregano, ascoltano, si ascoltano, parlano, conservano con gratitudine il passato, guardano con amore il presente e i suoi segni che ci fanno capire il tempo e la storia, scrutano il futuro che inizia nelle nostre scelte e nella nostra santità. Insieme! La Chiesa è Popolo, donne e uomini che, uniti dalla fede e dal Battesimo, camminano nella storia rendendo ragione della speranza che è in loro (cf. 1Pt 3,15). La Chiesa è famiglia e, se la viviamo come Gesù ci chiede, amandoci l’un l’altro, sapremo aiutare le nostre famiglie, le città degli uomini, il nostro Paese, il mondo, ad essere comunità! Fratelli tra di noi per vivere “fratelli tutti” con tutti. Sentiamo con noi le nostre Chiese e le nostre comunità, ma anche le città degli uomini, piccole e grandi, perché tutte importanti e amate da Dio. L’orizzonte non è solo il nostro Paese, ma anche l’Europa, che non dimentichiamo deve continuare, o forse riprendere, a respirare con i due polmoni, e il mondo intero. Oggi contempliamo, attraverso la nostra presenza, tutte le Chiese in Italia. È una bella icona.

Un pensiero grato ai rappresentanti delle Chiese cristiane in Italia, che sono qui con noi oggi, e ai tanti che sono compagni di cammino, ai rappresentanti dei mondi della politica, della cultura e dell’economia. In una società sempre più fratturata siamo chiamati a rammendare quel tessuto di relazioni e di umanità che costituisce il patrimonio vero del nostro Paese, le sue radici più profonde. Grazie per ciò che fate e per ciò che faremo insieme!
L’orientamento è uno solo ed è quello che la Basilica ci offre. Dobbiamo “orientarci”, guardare il futuro, vedere Gesù. La grandezza della Basilica ci ricorda che la Chiesa è una casa larga, accogliente, casa che prepara un posto per tutti, dove ognuno è accolto e amato, dove tutti impariamo a vivere secondo il comandamento del Signore. Casa, non realtà anonima o aziendale. Sentiamoci a casa e aiutiamo tutti a sentirsi a casa. Papa Paolo VI, riferendosi a questo mosaico davanti ai Vescovi del Concilio Vaticano II, riuniti all’inizio della seconda sessione, diceva: «Cristo presiede e benedice l’assemblea riunita nella Basilica, che è la Chiesa. Questa scena sembra riprodotta nella nostra assemblea» (29 settembre 1963). Il libro aperto di Cristo – come ha spiegato l’Abate Ogliari nel video introduttivo – mostra le parole del Giudizio, che sentiamo così vero oggi e che sarà quello della nostra vita, personale e di Chiesa, il giudizio sull’amore: «Venite, benedetti dal Padre mio, a ricevere il regno che vi è stato preparato dalla fondazione del mondo».

Ecco a chi volgiamo il nostro sguardo e apriamo il nostro cuore, che diventano questo “noi” così particolare, sacramento della sua presenza, comunione che ci unisce ben al di là delle nostre miserie e inadeguatezze. Cristo è il centro di tutto, l’inizio e la fine di ogni nostra parola. «Venite, benedetti» ci ricorda che la benedizione inizia nella carità verso i fratelli più piccoli attraverso quelle opere di misericordia possibili a tutti e dalle quali nessuno è esentato. La viviamo ogni domenica, e in particolare la prossima che è dedicata ai poveri e che ci spinge a condividere il pane della terra proprio perché condividiamo quello del cielo. È il nome santo e benedetto di Gesù, che diventa vita nella nostra vita, nome che non si esibisce, ma si custodisce e si mostra mettendo in pratica la sua Parola, costruendo comunità e vivendo da cristiani nel mondo. Ricorda Doroteo di Gaza: «Immaginate che il mondo sia un cerchio, che al centro sia Dio, e che i raggi siano le differenti maniere di vivere degli uomini. Quando coloro che, desiderando avvicinarsi a Dio, camminano verso il centro del cerchio, essi si avvicinano anche gli uni agli altri oltre che verso Dio. Più si avvicinano a Dio, più si avvicinano gli uni agli altri. E più si avvicinano gli uni agli altri, più si avvicinano a Dio» (Istruzioni VI). Ecco la gioia del nostro camminare insieme: guardando Lui e pieni di lui. «Cristo è il nostro principio, Cristo è la nostra guida e la nostra via, Cristo è la nostra speranza e la nostra meta», esclamava sempre Paolo VI all’inizio della seconda sessione del Concilio, invitando ad avere piena avvertenza di questo «vincolo unico e molteplice, fisso e stimolante, arcano e manifesto, stretto e soavissimo, con il quale noi siamo congiunti a Gesù Cristo, con il quale questa Chiesa santa e viva, che siamo noi, si unisce a Cristo, dal quale veniamo, per il quale viviamo ed al quale aneliamo. Questa nostra assemblea qui radunata non brilli d’altra luce se non di Cristo, che è la luce del mondo; i nostri animi non cerchino altra verità se non la parola del Signore, che è il nostro unico maestro; non preoccupiamoci d’altro se non di obbedire ai suoi precetti con una sottomissione fedele in tutto; non ci sostenga altra fiducia se non quella che corrobora la nostra flebile debolezza, perché si fonda sulle sue parole: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)» (Allocuzione all’inizio della Seconda Sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963).
In questo bellissimo contesto non possiamo non pensare al Concilio Vaticano II – lo ha ricordato Papa Francesco nel suo messaggio – che questa Basilica ha visto nascere con l’annuncio dato da san Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959. «Il Concilio che inizia – spiegava nel celebre discorso Gaudet Mater Ecclesia – sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: ma come già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole sorgente! Tutto qui spira santità, suscita esultanza» (Discorso per la Solenne apertura del Concilio, 11 ottobre 1962). È appena l’aurora! Tantum aurora est! Non aveva chiaro tutto, ma si affidava a Dio ed era pieno del suo Spirito. È anche quello che godiamo oggi e che libera dalle inevitabili amarezze, scioglie i dubbi, vince le resistenze e il veleno dello scetticismo, ci fa vivere la passione dell’inizio ricordando le attese delle nostre comunità e del prossimo che incontriamo e incontreremo.

Nel rievocare il Concilio viene spontaneo fare memoria dell’ormai prossimo 60° anniversario della pubblicazione della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (21 novembre 1964). È un’altra provvidenza con la nostra Assemblea che ci spinge a riannodare i fili di un cammino che anche per la nostra Chiesa in Italia è stato di progressiva accoglienza e di recezione della lezione conciliare. Cinquant’anni dopo Papa Benedetto ricordò come «in questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza» (Omelia per la Santa Messa per l’apertura dell’Anno della fede, 11 ottobre 2012).

È vero, abbiamo sperimentato e sperimentiamo come «nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania», come «la fragilità umana è presente anche nella Chiesa», «ma abbiamo anche avuto una nuova esperienza della presenza del Signore, della sua bontà, della sua forza» (Benedetto XVI, Benedizione ai partecipanti alla fiaccolata promossa dall’Azione Cattolica Italiana, 11 ottobre 2012). La consapevolezza del peccato, come per gli abusi che ricorderemo domani nella nostra preghiera, ci rende più umili ma anche più forti nell’essenziale, nell’amore di Dio. Ci ricorda la necessità della conversione del cuore e di comunità docili alla Parola, dove vivere la radicalità del Vangelo e la bellezza dell’amore cristiano. Sentiamo tanto l’emozione e la responsabilità di questa missione, senza lamentarci del deserto, ma facendo nostra la sete di Dio e di speranza così diffusa. E anche noi abbiamo sete.

Il nostro cammino di questi anni (come non ringraziare i tanti che ci hanno preceduto, hanno pensato e sognato una Chiesa madre che risponde alle attese del paese) ha avuto un impulso straordinario con il Convegno di Firenze, quando Papa Francesco ricordò che il nostro umanesimo non è astratto, generico, ma è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). «Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni» (Discorso ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015). È quella che chiedo per questo incontro e per l’ultima parte del nostro cammino. «Umiltàdisinteressebeatitudine» furono i tratti indicati dal Papa «per camminare insieme in un esempio di sinodalità», per non essere «una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi», perché «sarebbe triste» (Ibid., 10 novembre 2015). «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).

Le parole di Papa Francesco ci hanno accompagnato in questi anni, pur con tante fatiche e resistenze, ma anche con la consapevolezza che «il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà» (Discorso cit., 10 novembre 2015). Per essere costruttori dell’Italia, e metterci al lavoro per una Italia migliore, per essere semplicemente Chiesa. Come ha detto sempre Papa Francesco: non vogliamo ergerci a «custodi della verità» o a «solisti della novità» (Cf. Omelia, Memoria di San Giovanni XXIII, papa – Santa Messa, 60° anniversario dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 2022), ma riconoscerci figli umili e grati della santa Madre Chiesa. Guai a dividere la Chiesa o immiserirla! La amiamo nella sua povera ma concreta umanità, consapevoli che non si può avere Dio per Padre se non si ha la Chiesa per madre e anche della forza di comunione che lo Spirito continua a offrirci e che in questi anni di Cammino abbiamo visto farsi largo nelle paure e nelle abitudini delle nostre realtà, per farci vivere oggi l’appassionante e gioioso essere casa del Signore e comunità umana in un mondo segnato da tanta solitudine. Il Signore chiede ascolto, i fratelli chiedono ascolto: una Chiesa sinodale è una Chiesa permeabile alle voci della realtà. Anche quando queste sono dissonanti e disturbanti. Mai Gesù mortifica una voce che lo raggiunge. Semmai profitta di quanto ha ascoltato per far crescere il suo interlocutore nella fede (Mc 10,17-22). Ascoltare significa non restare passivi, non dare ragione a tutti, ma ascoltare tutti, farci toccare il cuore e trafiggerlo con le parole dell’amore che lo Spirito suggerisce, partendo dalla realtà per farla maturare in modo evangelico.

Il Signore ci chiama e ci manda, oggi, in questo mondo difficile e terribilmente sofferente, che incute paura e sembra cancellare il futuro. Siamo confrontati con ingiustizie insopportabili, ad iniziare dalla guerra, alle quali non vogliamo abituarci. Non possiamo accettare che sia la logica del più forte o del più furbo a prevalere. E dobbiamo domandarci sempre che cosa possiamo fare di più per la pace, dove è finita la pace creativa e se non preghiamo troppo poco per la pace in un mondo così sconvolto dalla guerra. La guerra, i cambiamenti degli scenari politici, le forze occulte e i poteri di interessi economici enormi, compreso quello legato alle armi, stanno rimescolando, in maniera non facilmente prevedibile, gli assetti del mondo, tanto che si ha la sensazione di essere una barca sbattuta dai venti in un mare in tempesta. I combattimenti appaiono lontani dai nostri Paesi ma il clima conflittuale non è lontano. Questo clima si riflette sulla società italiana: la spietata avanzata del numero dei femminicidi, la crescita della violenza tra i giovani, l’inasprirsi del linguaggio sempre più segnato dall’odio, i casi di antisemitismo, che non possiamo tollerare, sono come semi che da sempre il male getta nei cuori e nelle relazioni delle persone e contaminano i cuori e i linguaggi. Chi ha incarichi pubblici porta una responsabilità ancora maggiore perché non deve avere modalità e parole violente e pericolose, dentro una logica di polarizzazione, finendo per cercare solo ciò che divide, pensando così di difendere le proprie convinzioni e considerando addirittura pericoloso amare e difendere ciò che unisce, ovvero la collaborazione indispensabile per affrontare problemi così grandi. Un mondo di “Io” soli finisce facile preda di questi sentimenti. Le persone con poca fede finiscono prigionieri rassegnati della paura.

Non dobbiamo mai smettere di lavorare con pazienza e intelligenza per l’unità del nostro Paese, certo, nella laicità e nel pluralismo delle politiche e delle opinioni, ma sfuggendo alla banalizzazione della vita, al nichilismo, all’aggressione e alla contrapposizione come modalità del parlare e del decidere. Pochi mesi fa, alla Settimana Sociale di Trieste, abbiamo sperimentato quanto la Chiesa sia madre di tutti, perché solo guidata dal Vangelo. Leggere e qualificare le sue posizioni in un’ottica politica, deformando e immiserendo le sue scelte a convenienze o partigianerie, non fa comprendere la sua visione che avrà sempre e solamente al centro la persona senza aggettivi e limiti. Come Chiesa, di tempo in tempo, con la nostra esperienza umana dell’Italia, maturata tra la gente, esprimiamo “preoccupazioni” che non sono mai per dividere o per alimentare contrapposizioni, ma per fortificare quel bene comune che esiste e che va perseguito e difeso. Tanto più in un tempo di cambiamento, liberandoci dalla paura della vita (sic!) che paralizza e annebbia il cuore, per dare la vera sicurezza che è la comunità e l’appartenenza a questa, per fare crescere la voglia di aiutare e amare.

Il nostro Paese soffre tra l’altro di denatalità, che ha raggiunto livelli preoccupanti. Eppure, tutti sappiamo che non si combatte la denatalità senza una cultura della speranza nel futuro e senza preoccuparci di evitare l’emorragia di giovani dal nostro Paese e dalle aree interne. Il futuro dipende dalle politiche in favore della natalità, ma anche da politiche della casa, da politiche attive per il lavoro e per la famiglia, da autentiche politiche di integrazione dei migranti. Tutti questi aspetti insieme saranno in grado di generare un’alba nuova all’orizzonte. Papa Francesco ci ricorda che «si diventa sé stessi solo quando si acquista la capacità di riconoscere l’altro, e si incontra con l’altro chi è in grado di riconoscere e accettare la propria identità» (Dilexit nos, 18). La centralità del cuore rimanda al valore della nostra umanità e alle implicanze spirituali e sociali di una fede che non si rassegna a rimanere chiusa in ambienti di sacrestia. Non vogliamo illudere nessuno circa facili soluzioni in tasca, ma ci sentiamo di camminare con gli uomini e le donne di buona volontà che hanno a cuore le sorti del Paese. Noi ci siamo! E questa Prima Assemblea lo testimonia. Nessuno può pensare di salvarsi da solo. Solo attraverso la tessitura di comunità e di reti comunitarie nei territori saremo segno di speranza. Diventiamo esperti del “noi”, cultori delle relazioni e della gentilezza. Tutti possiamo esserlo: ne sentiamo il desiderio e questo diventa responsabilità e dovere.

In questi anni migliaia di persone sono stati coinvolte. È questo il modo con cui affrontare i problemi, nella responsabilità di ciascuno e con una partecipazione e un dialogo che coinvolge tutti. Questo non è solo indicazione di metodo ma soprattutto contenuto, così raro di questi tempi di indurito individualismo e di scarsa partecipazione. Desidero ringraziare di cuore Mons. Erio Castellucci, don Valentino Bulgarelli, la “Commissione balneare” che in realtà ha attraversato tutte le stagioni, il Comitato con la sua presidenza, i referenti, insomma le migliaia di persone che hanno raccolto riflessioni, fatiche, sogni, richieste in una sintesi non facile. Proprio con la medesima vivacità e intensità con cui abbiamo vissuto nelle nostre Diocesi le prime due tappe del Cammino sinodale, in questa prima Assemblea e poi anche nella prossima siamo chiamati a dare carne alla profezia di una Chiesa desiderosa di avanzare nella storia con la forza umile del Vangelo e col fermo proposito di non abbandonare mai la compagnia degli uomini per rinchiudersi «in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49). Per dirla con Papa Francesco, «se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita» (Evangelii gaudium, 49).
Una Chiesa più partecipativa e missionaria: sono i due attributi che racchiudono tutta la sfida del lavoro di questi anni, rappresentando in un certo senso il banco di prova del cambio di passo che la sinodalità chiede alle nostre Chiese. Se vogliamo, risiede anche qui la profezia del Cammino che stiamo compiendo. In un tempo di crisi globale della partecipazione e di accentuato e diffuso individualismo, la profezia del Cammino sinodale mostra come verso il futuro si possa andare solo condividendo la responsabilità di un passo comune, libero da autoreferenzialità come pure dalla «paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 6,37)» (Evangelii gaudium, 49).

Vivremo tra poco il Giubileo dell’Anno 2025. È una congiuntura provvidenziale, di grazia: un incontro tra il messaggio e il cammino giubilare con le attese nostre e del nostro popolo, dono a un mondo che cerca luce perché avvolto dalle tenebre, una grazia alla nostra Italia assetata di speranza, ai cristiani italiani che ne hanno bisogno, ma anche a tutte le persone. Siamo grati a Papa Francesco che ha ricordato la consapevolezza che Spes non confundit: «La speranza non delude» (Rm 5,5). Dice il Papa: «Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza» (Spes non confundit, 1). Quante ombre lunghe del pessimismo, dello scetticismo, ma anche del nichilismo pratico che si stendono sulla vita! È la sfida: camminare con speranza con tanti italiani e italiane, con tanti credenti magari un po’ spenti o rassegnati. È quello di cui le nostre Chiese hanno bisogno; ne hanno bisogno le nostre società: è un’occasione storica per gustare quanto è buono il Signore che ci libera dalle ombre cupe che avvolgono nella tristezza il vivere personale e sociale, mentre disincentivano ogni impegno e investimento sul futuro, magari dal quale conviene difendersi.
Una nuova passione per il mondo percorre le vene delle nostre comunità. È un tempo favorevole per la Chiesa, per la comunicazione del Vangelo, per l’accoglienza dei soli e di chi non sa dove andare. Folle intere aspettano consolazione e speranza, anche se non faranno parte dei discepoli.
Tutti, tutti, tutti sono affidati alle nostre cure. Gesù scelse i discepoli per rispondere a questi “tutti”, perché la folla diventi famiglia. La comunità cristiana – per piccola che sia: quando mai del resto ci è stato imposto di essere maggioranza? – è chiamata a vivere la sua vita comunitaria nella forma evangelica e guarire tanti feriti dalla vita. Il mondo è un ospedale da campo materiale e spirituale e possiamo riconoscere la distanza da colmare tra la vita e le proposte delle nostre comunità e l’esistenza degli uomini e delle donne di oggi.

Per la grazia del Signore, per l’intercessione dei santi e dei martiri, per la nostra insistente preghiera, vediamo sorgere un’aurora di speranza in questa nostra Italia, che riscalda il cuore di tanti e illumini il volto della Chiesa di luce materna. È in realtà molto più semplice di quanto le ossessioni impaurite fanno credere. In questo tempo difficile non saremo le vittime di una decadenza, abitati da sentimenti tristi, ma testimoni e attori di una nuova epoca di speranza e di entusiasmo per il futuro comune. Come viandanti abbiamo una meta precisa: Gesù Cristo. È lui che ci attrae, che motiva e sostiene i nostri passi, che ci indica la direzione. Avvicinarci a lui, tutti insieme, significa diventare noi stessi sempre più cristiani in questo tempo, ricco di sfide e opportunità. Invochiamo lo Spirito Santo su questa nostra Assemblea perché possa sostenere e illuminare i nostri passi nel cammino verso Gesù Cristo. Buon lavoro a tutti! Tantum aurora est!

 

Mons. Erio Castellucci

Pubblichiamo la relazione di Mons. Erio Castellucci, Presidente del Comitato Nazionale del Cammino sinodale, alla Prima Assemblea sinodale.

“Di me sarete testimoni”. Partiti dalle nostre Chiese locali ci siamo riuniti qui a Roma, la Chiesa di Pietro e Paolo, per inserirci nell’ininterrotta corrente spirituale che scaturì dal mandato di Gesù ai primi discepoli, in quegli straordinari eventi che lo videro protagonista, tra Pasqua e Pentecoste. Di lui intendiamo essere testimoni: per questo abbiamo accettato di coinvolgerci nel Cammino sinodale, spendere tempo ed energie per ascoltare, pregare, celebrare, discernere e orientarci. Per essere testimoni di Cristo risorto – e quindi fedeli all’umanità del nostro tempo – abbiamo accolto l’invito di Papa Francesco, che tre anni fa ha messo in Sinodo tutta la Chiesa. La forza dallo Spirito Santo è il vento che sospinge il nostro Cammino sinodale. La missione a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra (cf. At 1,8) è l’orizzonte del nostro convenire.
Quando avviammo il Cammino sinodale, incombevano ancora le ombre della pandemia, che aveva seminato paure e lutti, smarrimento e dolore. Avevamo vissuto, in una sorta di sospensione del tempo, l’allentamento dei legami vitali e persino la loro recisione; improvvisamente la vita quotidiana era stata sconvolta, l’apprensione per la nostra salute e quella dei nostri cari era diventata triste realtà, con tante morti prive di assistenza familiare e di accompagnamento al sepolcro. Si era fatto buio su tutta la terra, in un Venerdì Santo universale e, poco tempo dopo, in un Sabato Santo fatto di attese e speranze. Spuntavano infatti, qua e là, dei lampi di luce in quella tenebrosa esperienza: gesti di prossimità e creatività, veri e propri eroismi domestici e comunitari, segnali di interesse verso le proposte spirituali, le preghiere e le celebrazioni a distanza. E tanti propositi, tante intuizioni per il dopo pandemia.
Il Sinodo ha preso avvio in questo clima, quasi segnando un nuovo inizio e aprendo il cuore di molti alla speranza. Il nostro Cammino, per un anno intero, si è plasmato sulle questioni proposte dal Sinodo universale. A metà del percorso di quel primo anno, quando ormai la pandemia si diradava, la tragedia insensata della guerra è entrata in modo martellante nelle nostre case, facendoci ripiombare in un clima cupo, ma – anche in questo caso – ispirando gesti di accoglienza e solidarietà. Quando poi nell’ottobre dello scorso anno, in corrispondenza con la prima sessione del Sinodo universale e l’inizio per noi dell’anno sapienziale, è esploso il conflitto in Israele e Gaza, abbiamo nuovamente vissuto il sapore amaro dell’odio e della distruzione.
Queste crisi planetarie si sono intrecciate con i nostri percorsi sinodali, come delle ferite che continuano a sanguinare, e vi si sono incise: lo documentano le sintesi diocesane che le nostre Chiese locali hanno consegnato alla fine di ciascuno dei tre anni del percorso. Ma tante altre crisi si sono mescolate con quella sanitaria  geopolitica, segnando profondamente il Cammino sinodale: la crescita del disagio psichico in particolare fra minorenni; l’aumento delle catastrofi naturali; l’accentuata criminalizzazione del fenomeno migratorio; la silenziosa conversione dell’economia in economia di guerra; femminicidi e omicidi familiari ripetuti; sistema carcerario gravemente inadeguato; accentuazione diseguaglianze; crollo partecipazione al voto… l’ingresso di queste ed altre crisi nei lavori sinodali e nelle sintesi finali di ogni anno è la conferma che le nostre comunità cristiane non stanno sorvolando la storia, come mongolfiere che evitano gli ostacoli e le asperità del terreno, ma la stanno attraversando a piedi, facendo compagnia all’umanità del nostro tempo e cercando così di imitare Gesù, che annunciava il regno camminando sui polverosi sentieri umani. Le nostre Chiese, con tutte le loro fragilità (anch’esse onestamente segnalate nelle sintesi diocesane e nazionali), sono permeabili all’umano: ne respirano gioie e speranze, tristezze e angosce (cf. GS 1). Se non fosse così, dovremmo chiedersi se siamo ancora testimoni di Gesù morto e risorto.

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Le crisi che i discepoli di Gesù vivono nella storia non spengono tuttavia la speranza: essi sentono di essere anzi “pellegrini di speranza”, come ci ricorda il Giubileo che sta per iniziare. “Pellegrini”, perché non si installano al traguardo, aspettando comodamente che gli altri li raggiungano, ma affiancano i fratelli e le sorelle, errando, faticando con loro, condividendone ansie e risorse. I discepoli di Gesù sanno di essere “vasi di creta”, che però hanno un “tesoro” (cf. 2 Cor 4,7), appunto la speranza: una speranza pasquale, una speranza che “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito” (Rom 5,5). Coloro che hanno partecipato in qualsiasi forma al Cammino sinodale non hanno mai perso questa speranza pasquale, anche quando si sono trovati di fronte ad ostacoli e resistenze. Sia il biennio narrativo, con un’attività intensa di ascolto nelle decine di migliaia di gruppi sinodali impegnati nella “conversazione spirituale”, e nelle centinaia di cantieri organizzati come laboratori pastorali, sia l’anno sapienziale, affidato soprattutto agli Organismi di partecipazione, hanno consegnato alla fase profetica, quella che stiamo percorrendo, alcune priorità, dalle quali si deducono proposte creative, prassi feconde e disponibilità preziose. La domanda di fondo in questi anni è sempre quella di partenza, e non dobbiamo perderla per strada: “come possiamo essere Chiesa sinodale in missione?”, cioè testimoni del Risorto oggi. Le piste individuate, dentro all’orizzonte missionario, si sono incanalate nell’esigenza di una riforma che richiede una triplice conversione (cf. EG 27): 1) La “conversione comunitaria”, attraverso un’attenzione specifica ad un “fare cultura” che non resti chiuso nelle accademie, ma che raccolga le innumerevoli esperienze evangeliche vissute nelle nostre comunità e le sappia fondare, esprimere con linguaggi comprensibili e attuali e mostrarne la bellezza (secondo il principio: “la realtà è più importante dell’idea”: cf. EG 231-233). 2) La “conversione personale”, nella cura della formazione cristiana a tutti i livelli: l’evangelizzazione, l’iniziazione cristiana (il tema più frequentato), la catechesi degli adulti, le varie forme di annuncio (anche nelle case e negli ambienti di vita), la lectio divina, l’accompagnamento spirituale e gli itinerari teologici strutturati. 3) La “conversione strutturale”, che passa attraverso la corresponsabilità ecclesiale: con il rilancio dei ministeri laicali e degli organismi di partecipazione, la riforma delle Curie, la valorizzazione dell’apporto delle donne anche nei ruoli di guida e la gestione delle strutture materiali, amministrative e pastorali, talvolta pesanti e sovra-dimensionate. Come si vede, non si tratta di mettere a fuoco l’intero ventaglio dei temi pastorali, ribadendo magari in modo compilativo l’importanza di tutti gli ambiti e i settori della vita pastorale: si tratta piuttosto di toccare – come ha fatto il Sinodo universale nel documento finale della seconda sessione, subito approvato dal Papa – i nodi che permettono di sbloccare alcune dinamiche ecclesiali, o ecclesiastiche o persino clericali, refrattarie alla sinodalità. Nel Comitato del Cammino sinodale le abbiamo chiamate “condizioni di possibilità” per comunità più evangeliche e missionarie. Per ribadire semplicemente l’importanza di tutti e di tutto non occorreva un Sinodo, che invece si dimostra provvidenziale per snellire alcuni meccanismi divenuti eccessivamente pesanti rispetto alle esigenze della testimonianza del Risorto.
Ciascuno di questi grandi obiettivi comporta delle proposte, sulle quali occorrerà assumere orientamenti pratici condivisi, sia nelle due Assemblee sinodali nazionali, sia nelle Chiese locali; orientamenti ai quali l’Assemblea della Cei del maggio prossimo dovrà dare forma definitiva.

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Domani ai tavoli sinodali ciascuno offrirà il proprio contributo, in relazione all’argomento scelto. Ora vorrei dare semplicemente qualche spunto sull’orizzonte di fondo, che riguarda la missione e, più specificamente, la dimensione culturale della testimonianza cristiana. Il Cammino sinodale si è snodato nella consapevolezza del “cambiamento d’epoca” che viviamo, segnalato ripetutamente da Papa Francesco fin dal grande discorso al Convegno di Firenze del 10 novembre 2015. Chiesa e società, anche in Italia, non sono più gemelle, né spesso parte della stessa famiglia; non esiste più un “sistema di valori” condiviso; la tradizione cristiana non rappresenta più una piattaforma comune nella vita della gente, e la pratica della fede è abbondantemente disertata dai battezzati, mentre crescono le persone che in Italia si professano non credenti o appartengono ad altre religioni.
La reazione poteva essere di sconforto, di ricerca dei colpevoli o di nostalgia del passato: e in effetti qualcuno vive questi sentimenti e li esprime in forme tradizionaliste, forse più rumorose che numerose. Invece la grande maggioranza di coloro che hanno preso parte all’esperienza sinodale, sia universale che italiana, hanno espresso una reazione ben diversa, sostanzialmente consonante con le prospettive della Evangelii Gaudium: e non era dato per scontato. Una reazione non disfattista ma costruttiva, non rassegnata ma fiduciosa, non stizzita e accusatoria, ma aperta e accogliente. Si moltiplicano nelle sintesi diocesane, e negli altri apporti di singoli e gruppi, gli inviti a scrutare “i segni dei tempi”, a ricercare i “semi del Regno” o “le tracce del Vangelo”, a rilevare i “frutti dello Spirito”. Non dunque la pretesa di raccogliere estesi consensi attraverso il recupero di valori condivisi, ma il desiderio di esaminare tutto e tenete ciò che è buono (cf. 1 Tess 5,21), facendosi provocare da una realtà nella quale Dio, comunque, opera. Siamo certi infatti che lo Spirito sceso a Pentecoste non si dona a macchia di leopardo, ma illumina il cosmo e la storia, senza lasciare orfano nessuno. Se è vero è che i valori condivisi si sono sgretolati, è anche vero che dentro ogni uomo continua a pulsare la domanda di senso: “Nella vita di ogni giorno i cittadini molte volte lottano per sopravvivere e, in questa lotta, si cela un senso profondo dell’esistenza che di solito implica anche un profondo senso religioso” (EG 72). La questione è saper ascoltare le lotte dei nostri contemporanei dialogando con il “senso profondo dell’esistenza” che esprimono, e il loro “profondo senso religioso”.
L’ampia gamma delle esperienze registrate in questo triennio mostra la praticabilità di questo metodo missionario, definito fin dal secondo anno del Cammino “missione nello stile della prossimità”; un metodo che è quello conciliare. Il Concilio Vaticano II infatti ha riletto la natura della Chiesa all’interno della prospettiva missionaria: essa esiste non per se stessa, ma “come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (cf. LG 1). Essa non è frutto della libera iniziativa dei suoi aderenti, ma della risposta alla chiamata del Padre, del Figlio e dello Spirito (cf. LG 2-4; AG 2-4), ed è inviata a tutto il mondo per come “sacramento di salvezza” (cf. LG 48), per donare il tesoro più prezioso, la comunione con il Signore Gesù. In quest’opera missionaria, nella quale la Chiesa dà al mondo e da esso riceve (cf. GS 43-44), essa è mossa dal desiderio di offrire un apporto di umanizzazione e progresso. Le esperienze registrate in questi anni, dicevo, si muovono all’interno di questo metodo missionario. Già prima del Vaticano II la “teologia della missione” non era più solo “teologia delle missioni”: era sorta cioè, almeno in alcuni precursori come il p. Henri de Lubac, la coscienza che la missione appartiene alla natura stessa della Chiesa e non ne costituisce semplicemente un’attività temporanea. La motivazione data dalla “salvezza delle anime”, intesa nella sua sola prospettiva ultraterrena, non era più sufficiente per l’annuncio del Vangelo, perché diventava evidente la possibilità di raggiungerla anche al di fuori della Chiesa visibile; si faceva strada invece quella ragione che poi Papa Giovanni Paolo II chiamerà “salvezza integrale” (cf. Enc. Redemptoris Missio 11), comprendente anche la liberazione che già a partire dalla vita terrena la fede in Cristo può portare. Allora la missione, così intesa, riguarda dunque non solo le genti – “missio ad gentes” – con un inevitabile iato tra battezzati e non battezzati, ma riguarda tutti e diventa non una delle attività della Chiesa, ma la sua stessa ragion d’essere, connotandone lo stile e l’opera. In quest’ottica il Vaticano II ha potuto parlare di una Chiesa “per sua natura missionaria” (cf. AG 2) e di una Chiesa nella quale diversità di ministeri ma unità di missione (cf. AA 2). E la qualifica di “discepoli missionari” data da Papa Francesco a tutti i battezzati (cf. EG 24 e 173) è la ripresa di questa dottrina conciliare. Non attori della missione da una parte e destinatari dall’altra, come si tendeva a dire prima, ma tutti attori e tutti destinatari, perché tutti portatori di annuncio e tutti bisognosi di conversione.

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Comunità di discepoli missionari: è una meta, certo, ma è anche una bella realtà. Ciascuno di noi conosce “santi della porta accanto” che senza clamore, e magari nel chiuso di un appartamento urbano o nell’isolamento di una casa di campagna o di montagna, portano avanti nel quotidiano la loro testimonianza umana e cristiana; ce ne sono tanti, forse più di quelli che si immaginano; e non sono rilevanti nelle statistiche religiose. La sociologia, pur preziosa anche pastoralmente, trae conclusioni dalle statistiche e dalle previsioni riguardanti ciò che è registrabile: battezzati e non, credenti e non, praticanti e non, e così via. Per la scienza statistica, una visita all’ammalato o un dialogo anche occasionale con un adolescente o l’accoglienza di un povero, non rilevanza, a differenza delle percentuali dei praticanti o di chi si sposa in Chiesa o del numero dei seminaristi. Eppure la comunità cristiana si nutre di gesti quotidiani e spesso nascosti, che hanno a che vedere più con le relazioni che con l’organizzazione, più con l’ascolto e l’accoglienza che con gli eventi di massa. Una comunità cristiana – è emerso chiaramente nelle sintesi di questi anni – è tanto più fedele alla logica del regno inaugurato da Gesù, quanto più è capace, come lui, di incontri non programmati, ascolto delle sofferenze e dei sogni, affiancamento a chi cerca un senso alla vita. Si aprirebbero riflessioni, del resto già in atto, sulla necessità di concepire “la pastorale” non solo in senso istituzionale (proposte organizzate di annuncio, liturgia, carità), ma anche in senso informale, lasciando spazi e tempi alla creatività, alla cura delle relazioni, alla narrazione dei vissuti. Credo che la ricchezza di esperienze riflessa nelle sintesi delle nostre Chiese locali debba essere messa a disposizione di tutti: e non sarà uno di frutti minori del Cammino sinodale.
Tra l’esperienza vissuta e proposta praticabile tuttavia c’è spesso un salto. Come è scritto nei Lineamenti, “la fase profetica nel nostro Cammino sinodale non va intesa come abbandono della cultura”. Se cultura e profezia, nella mentalità diffusa, vengono poste in alternativa, si corre il rischio di relegare la cultura nelle accademie e la profezia nelle piazze: per i cristiani invece la profezia è la scelta di testimoniare integralmente il Vangelo e la viva Tradizione, abbracciandone tutti gli aspetti. La profezia in altre parole è la capacità di declinare quello che del cristianesimo “fa la differenza” nella cultura in cui esso è chiamato a vivere, non in un contesto ideale astorico e atemporale” (n. 19). La missione diventa cultura quando un’esperienza si presenta ragionevole e praticabile anche per gli altri. Qui sta la forza della profezia. Se un’azione, anche forte e coraggiosa, appare irragionevole o insensata, non genera nulla, tranne forse un apprezzamento compassionevole verso chi l’ha compiuta. La dimensione culturale è essenziale perché un’esperienza buona possa diffondersi e arricchire il mondo. La profezia non è semplicemente la testimonianza di qualche eroe solitario – pure apprezzabile e necessaria – ma è una qualità di tutta la Chiesa, “popolo profetico” (cf. LG 12), e di tutte le persone di buona volontà al di fuori di essa. Questa qualità “comune” – non solo singoli profeti, ma un popolo profetico – è la nota con la quale vorremmo percorrere il terzo passo del nostro Cammino, dopo la fase narrativa e quella sapienziale.

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Dire “fase profetica”, infatti, significa per noi riattivare quella Pentecoste che fu un fatto di popolo, non di singoli. “Tutti” sentivano i primi predicatori parlare la propria lingua. E Pietro, spiegando l’incredibile accaduto, si disse convinto che era l’adempimento della profezia di Gioele, “negli ultimi giorni – dice Dio – su tutti effonderò il mio Spirito; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno” (At 2,17-28; cf. Gioe 3,1-2). Per questo abbiamo scelto, nel Cammino sinodale, di evitare una restrizione progressiva delle competenze, come se al primo biennio aperto a tutti – in quanto la narrazione è alla portata di ciascuno – dovesse seguire un anno sapienziale riservato ad una cerchia di esperti (teologi ed esperti) e infine un anno profetico ristretto a chi doveva prendere le decisioni ultime. Abbiamo invece optato per lasciare sempre aperta a tutto il Popolo di Dio, nell’ampiezza delle sue componenti, la possibilità di intervenire ed esercitare il “senso di fede” proprio dell’intera famiglia dei battezzati (cf. LG 12). Anche questa terza fase, dunque, vede la partecipazione di tutti: sia attraverso di noi, membri o delegati o invitati alle due Assemblee, sia attraverso le forme partecipative che ogni Chiesa locale è invitata ad attivare attraverso lo Strumento di lavoro che uscirà da questa Assemblea. La profezia sinodale non è appannaggio di singoli, ma caratteristica dell’intero Popolo di Dio.
La nostra missione profetica, dunque, è incisa in questo noto versetto della prima Lettera di Pietro: “(siate) sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3,15). Prima occorre piantare la speranza “in noi”, testimoniandola con la vita; poi – se richiesti (“pronti a rispondere”) – saperne formulare le ragioni. Il fatto è che troppo spesso i due aspetti, cioè la speranza vissuta nell’esperienza e la capacità di motivarla con la ragione, rimangono distanti: la prima sparpagliata nel quotidiano delle nostre comunità e la seconda concentrata negli ambienti accademici. Occorre gettare dei ponti tra le case e le aule, tra le strade e le biblioteche. In questi tre anni si sono moltiplicati i convegni, le giornate di studio e le pubblicazioni sui temi sinodali. Una messe abbondantissima e preziosa, che è un altro dei frutti di questo percorso: ormai, anche grazie a quest’opera ormai imponente, abbiamo la possibilità di sviscerare tutte le sfumature della sinodalità. Colgo l’occasione per ringraziare quanti, anche tra voi, si sono spesi con le loro competenze bibliche, teologiche, pastorali e canonistiche per fare luce sulla sinodalità e sulle sue prospettive. Si è confermato che in Italia la comunità degli studiosi nei campi delle scienze religiose hanno le antenne e le risorse per leggere in profondità il “senso di fede” del Popolo di Dio e saperne discernere le traiettorie. E a questo proposito, desidero anche rilevare come in questi tre anni – ulteriore regalo del percorso sinodale – anche i Vescovi, insieme alle loro Chiese locali, hanno camminato insieme, dedicando gli orientamenti diocesani, quasi sempre sotto forma di lettere pastorali, al tema e all’icona proposta per quell’anno: dalla casa di Betania alla scena di Emmaus e, ora, alla Pentecoste.
Tornando alla cultura, e andando verso la conclusione, mi pare che per elaborare proposte culturali che esprimano la missione profetica del Popolo di Dio occorra – cito ancora i Lineamenti – “immergere nel Vangelo e nella Tradizione le esperienze belle e buone, che sono possibili e umanizzanti” (n. 20). La cultura infatti, si legge nello stesso documento, “è la vita delle persone e delle comunità letta nei suoi valori e significati” (n. 17). Non dunque che i singoli assumano e imitino buoni esempi – per quanto sia un’azione auspicabile – ma occorrono “esperienze pensate”, che siano replicabili nelle comunità e aiutino a crescere in umanità. E che, a loro volta, producano “idee riformulate”, in grado di ispirare altre esperienze, in quel circolo virtuoso tra prassi e teoria che è capace di far crescere la società. Una spia della scarsità di questi ponti tra esperienza vissuta e pensiero riflesso è la divisione tra i cattolici, schierati spesso politicamente su fronti contrapposti, dove il rispetto per la vita fragile divide però coloro che si impegnano per la vita nascente contro quelli che si impegnano per l’accoglienza dei migranti e viceversa, coloro che sostengono la famiglia e coloro che si occupano del creato e viceversa.
Questa divisione, che non è semplice ed augurabile dibattito ma diventa contrapposizione – denota un senso di appartenenza partitica più forte del senso di appartenenza ecclesiale e pone proprio la questione della missione profetica nella sua dimensione culturale: evidentemente quella “ecologia umana” di cui trattava Papa Benedetto XVI o quella “ecologia integrale” elaborata da Papa Francesco sono ancora lontane dal comune sentire cattolico. Non si faranno però dei grandi passi in avanti, senza impastare la teoria sulle prassi. Esistono numerosissime esperienze di accoglienza della vita nascente e dei migranti, di iniziative per la cura del creato e per la famiglia e l’educazione, l’inclusione: occorre metterle in rete, mostrarne l’ispirazione evangelica, agganciarle alla viva Tradizione ecclesiale: un’opera che coinvolge le nostre comunità cristiane e civili come i teologi e gli studiosi, gli operatori della comunicazione come i pastori, i laici e le persone consacrate. Gli orientamenti che andremo via via precisando in questo anno possono senza dubbio suggerire modi e strumenti per realizzare e diffondere “esperienze pensate”, come contributo alla crescita del regno in mezzo a noi (cf. Lc 17,21). Papa Francesco, nel discorso alla Settimana sociale di Trieste, a superare una visione privatistica della fede e intervenire nel dibattito pubblico: con umiltà, sapendo di essere minoranza, ma senza farci vincere dalla tentazione dell’insignificanza. Ha detto: “non possiamo accontentarci di una fede marginale, o privata. Ciò significa non tanto di essere ascoltati, ma soprattutto avere il coraggio di fare proposte di giustizia e di pace nel dibattito pubblico. Abbiamo qualcosa da dire, ma non per difendere privilegi. No. Dobbiamo essere voce, voce che denuncia e che propone in una società spesso afona e dove troppi non hanno voce” (7 luglio 2024). Minoranze sì, ma – direbbe Papa Benedetto XVI – “minoranze creative”.

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Ora, ribadendo la gratitudine verso tutti, già espressa da chi mi ha preceduto, concludo guardando insieme a voi ai lavori che ci attendono. I Lineamenti e le Schede operative sono testi ricchissimi, che verranno discussi, arricchiti, corretti, integrati. Ci muoviamo nel solco del Sinodo dei vescovi da poco concluso, facilitati dalla approvazione del documento finale già espressa da Papa Francesco. Non dobbiamo dunque attendere un’Esortazione apostolica, ma possiamo far leva sulle convergenze raggiunte nel Sinodo – trasferite nelle nostre Schede – e di lì proseguire per quanto ci riguarda. Questa nostra Assemblea è già una prima esperienza di ricezione del Sinodo universale. Ora tocca a noi, nei prossimi mesi, adattare e tradurre gli orientamenti sinodali nella nostra situazione, nelle Chiese locali e in alcune scelte della Chiesa italiana. Non perdiamo di vista che lo scopo non è tanto di produrre altra carta – per quanto sarà necessario anche questo – ma proseguire nell’esperienza di uno stile, quello sinodale, che già sta diventando prassi nelle nostre Chiese e che ora domanda di potersi consolidare e disporre di strumenti perché diventi anche fatto strutturale. In quest’opera, affidandoci allo Spirito del Padre, sperimenteremo una volta di più che “di lui”, di Cristo risorto, siamo testimoni: e che questa testimonianza, se fedele a lui e al suo Vangelo, umanizza noi stessi e il mondo. Ci mettiamo in cammino con Maria, che dall’annuncio di Gabriele alla Pentecoste è stata ed è l’icona della Chiesa, pellegrina di speranza.

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