Alla Mole Vanvitelliana è stata inaugurata la mostra : “La storia della Querina”, promossa dall’Accademia dello stoccafisso all’Anconetana. Vi hanno preso parte le Autorità e tante persone. Presente anche l’artista Franco Fortunato.
Di seguito viene riportato l’intervento dell’Arcivescovo.
“Buona sera a tutti. Ringrazio il Presidente dell’Accademia dello Stoccafisso all’Anconetana, Pericle Truia, il segretario, Gilberto Graziosi, e tutti i soci dell’Accademia, per l’invito che mi hanno rivolto a partecipare e a dare un contributo di sintesi sulla alimentazione nella Bibbia e nella tradizione della Chiesa.
Uno dei bisogni primari dell’uomo è nutrirsi. Ma di che cosa ci si deve nutrire, con quali cibi? Cosa dice la Bibbia in merito?
Volendo tracciare una sintesi possiamo dire questo:
Una attività che i patriarchi svolgevano era l’agricoltura e la pastorizia. E’ ovvio che si nutrivano di pane, di derivati del latte, della carne di agnello. A Isacco piaceva la cacciagione. Esaù andava pazzo per la zuppa di lenticchie, tanto da cedere la primogenitura al fratello Giacobbe. Abramo quando ricevette la visita dei tre ospiti al querceto di Mamre non offrì loro solo focacce schiacciate e latte, ma anche un vitello «tenero e buono».
Alcune prescrizioni di alimenti vengono elencate nel libro del Levitico al capitolo 11. E’ evidente che le proibizioni di alcuni cibi erano legate a ragioni igienico-sanitarie, impreziosite da principi etico-religiosi
Fu Gesù a invalidare queste prescrizioni, divenute ormai ai suoi tempi vuota esteriorità: «Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo!», perchè «tutto ciò che entra nella bocca, passa nel ventre e va a finire via» (Mt 15,11.17).
Ebbene, secondo i quattro Vangeli canonici, Gesù cosa mangiava? Iniziamo col dire che non è possibile ricostruire con esattezza la dieta seguita dal Messia, perché le informazioni in nostro possesso sono piuttosto scarse. Gli evangelisti riferiscono spesso di feste e banchetti ai quali Gesù partecipò con i suoi discepoli (si pensi per esempio alle nozze di Cana, al pranzo in casa di Levi o di Simone il fariseo, Gv 21-11, Mt 9,10-11, Lc 7,36), ma non conosciamo il menù di questi pranzi; tuttavia si può supporre che Gesù fosse un buon commensale se i suoi nemici, mettendolo a paragone col Battista, lo rimproveravano di essere «un mangione e un beone». (Mt 11,18-19). Sicuramente, dopo la sua Risurrezione, Egli mangiò del pesce arrostito con i suoi discepoli.«Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro», Lc 24,42-43.
Sappiamo bene, invece, di quali alimenti Egli si servì per sfamare le folle (vd. le moltiplicazioni dei pani e dei pesci, almeno due, Mc 6,34-44 e 8,1-9) e i discepoli, anche dopo la Risurrezione, quando, apparendo sul lago di Tiberiade, si mise a cucinare il pesce per Pietro e gli altri (Gv 21,9-14). Nella parabola del figlio prodigo parla dell’uccisione di un vitello grasso.
In una visione successiva alla Risurrezione e alla discesa dello Spirito Santo, l’apostolo Pietro ha una visione e gli viene detto: uccidi e mangia. Sulla tavola si trovano quadrupedi, fiere, rettili e uccelli, che Pietro non vorrebbe mangiare perché – in base alla Legge – li riteneva «profani e immondi» e non voleva contaminarsi a causa loro. Ma il Signore gli ordina di «uccidere e mangiare», perché nessuna delle creature purificate da Dio può contaminare l’uomo.
Mangiare e bere, nella Bibbia, sono una cifra simbolica del vivere umano. Non sono soltanto il soddisfacimento di un bisogno biologico, di un piacere sensibile, ma un atto simbolico.
Nel mangiare e bere è impegnata la libertà umana che umanizza un gesto che da solo conserva una radicale ambiguità e che solo la decisione libera di amare può riscattare e far valere come azione positiva, mezzo di comunicazione. Mangiare e bere sono anche segno di comunione, di ospitalità, di amicizia.
Lo stile, con il quale Gesù invita i discepoli a digiunare, insegna che la mortificazione è sì esercizio di austerità in chi la pratica, ma non per questo deve diventare motivo di peso e di tristezza per il prossimo, che attende un atteggiamento sereno e gioioso.
Il digiuno e l’astinenza — insieme alla preghiera, all’elemosina e alle altre opere di carità — appartengono, da sempre, alla vita e alla prassi penitenziale della Chiesa: rispondono, infatti, al bisogno permanente del cristiano di conversione al regno di Dio, di richiesta di perdono per i peccati, di implorazione dell’aiuto divino, di rendimento di grazie e di lode al Padre.
Nella penitenza è coinvolto l’uomo nella sua totalità di corpo e di spirito: l’uomo che ha un corpo bisognoso di cibo e di riposo e l’uomo che pensa, progetta e prega; l’uomo che si appropria e si nutre delle cose e l’uomo che fa dono di esse; l’uomo che tende al possesso e al godimento dei beni e l’uomo che avverte l’esigenza di solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini. Digiuno e astinenza non sono forme di disprezzo del corpo, ma strumenti per rinvigorire lo spirito, rendendolo capace di esaltare, nel sincero dono di sé, la stessa corporeità della persona.
Ma perché il digiuno e l’astinenza rientrino nel vero significato della prassi penitenziale della Chiesa devono avere un’anima autenticamente religiosa, anzi cristiana. Ci preme pertanto riproporre il significato del digiuno e dell’astinenza secondo l’esempio e l’insegnamento di Gesù
In particolare, per il cristiano l’astinenza non nasce dal rifiuto di alcuni cibi come se fossero cattivi: egli accoglie l’insegnamento di Gesù, per il quale non esistono né cibi proibiti né osservanze di semplice purità legale: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» (Mc 7,15).
La dottrina e la pratica del digiuno e dell’astinenza, da sempre presenti nella vita della Chiesa, assumono una fisionomia più definita negli ambienti monastici del IV secolo, sia con la sottolineatura abituale della frugalità, sia con la privazione del cibo in determinati tempi dell’anno liturgico. Nel medesimo periodo, sotto l’influsso degli usi monastici, le comunità ecclesiali delineano le forme concrete della prassi penitenziale.
La pratica antica del digiuno consiste normalmente nel consumare un solo pasto nella giornata. Si consolida, attraverso i secoli, l’usanza secondo cui quanto i cristiani risparmiano con il digiuno venga destinato per l’assistenza ai poveri ed agli ammalati. «Quanto sarebbe religioso il digiuno, se quello che spendi per il tuo banchetto lo inviassi ai poveri!», esorta Sant’Ambrogio; e Sant’Agostino gli fa eco: «Diamo in elemosina quanto riceviamo dal digiuno e dall’astinenza. Così l’astensione dal cibo è sempre unita all’ascolto e alla meditazione della parola di Dio, alla preghiera e all’amore generoso verso coloro che hanno bisogno. In questo senso San Pietro Crisologo afferma: «Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola, e ricevono vita l’una dall’altra. Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuna abbia misericordia».
Durante l’epoca medioevale e moderna, la pratica penitenziale viene tenuta in grande considerazione, diventando oggetto di numerosi interventi normativi ed entrando a far parte delle osservanze religiose più comuni e diffuse tra il popolo cristiano.
In passato l’astinenza dalla carne e dei suoi derivati (latticini, uova) poggiava su due motivazioni: la prima è che si riteneva che il suo consumo stimolasse le passioni e uno degli scopi del digiuno e dell’astinenza era (ed è) proprio la liberazione da esse. Il secondo era di natura penitenziale. San Tommaso d’Aquino scrisse che la carne e i suoi derivati sono alimenti che “piacciono maggiormente e danno un maggiore nutrimento al nostro corpo” (Somma teologica, II-II, 147, 8). Il pesce, invece, veniva considerato il cibo dei poveri e che inoltre forniva meno calorie. Quindi il suo consumo era ammesso.
Alle motivazioni teologiche, con il tempo si sono aggiunte tante tradizioni che variano di luogo in luogo e che nel corso dei secoli hanno preso il sopravvento, se pensiamo alla vigilia di alcune feste. IO ho fatto il parroco in un paese e la vigilia della festa del santo Patrono le persone facevano digiuno e anche agli animali della stalla o da cortile veniva dato cibo solo una volta nella giornata.
La Quaresima è, dopo le festività natalizie e le ferie estive, il periodo dell’anno in cui gli italiani consumano più pesce. Una consuetudine quindi molto sentita, anche se nel tempo si sono affievolite le ragioni teologiche.
Oggi le cose sono molto cambiate. Il pesce, specie alcune tipologie, non è affatto un alimento “da poveri”. Per questo la Conferenza episcopale italiana, in data 4 ottobre 1994, ha stabilito che la legge dell’astinenza non proibisce solo l’uso delle carni, ma anche “dei cibi e delle bevande che, a un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi”. Quindi rinunciare a una bistecca per sostituirla con un’aragosta non va molto bene.
Nota pastorale con le seguenti disposizioni normative, che trovano la loro ispirazione e forza nel canone 1249 del Codice di diritto canonico: «Per legge divina, tutti i fedeli sono tenuti a fare penitenza, ciascuno a proprio modo; ma perché tutti siano tra loro uniti da una comune osservanza della penitenza, vengono stabiliti dei giorni penitenziali in cui i fedeli attendano in modo speciale alla preghiera, facciano opere di pietà e di carità, sacrifichino se stessi compiendo più fedelmente i propri doveri e soprattutto osservando il digiuno e l’astinenza». Queste disposizioni normative sono la determinazione della disciplina penitenziale della Chiesa universale (26), che i canoni 1251 e 1253 del Codice di diritto canonico affidano alle Conferenze Episcopali.
1) La legge del digiuno «obbliga a fare un unico pasto durante la giornata, ma non proibisce di prendere un po’ di cibo al mattino e alla sera, attenendosi, per la quantità e la qualità, alle consuetudini locali approvate» (27).
2) La legge dell’astinenza proibisce l’uso delle carni, come pure dei cibi e delle bevande che, ad un prudente giudizio, sono da considerarsi come particolarmente ricercati e costosi.
3) Il digiuno e l’astinenza, nel senso sopra precisato, devono essere osservati il Mercoledì delle Ceneri (o il primo venerdì di Quaresima per il rito ambrosiano) e il Venerdì della Passione e Morte del Signore Nostro Gesù Cristo; sono consigliati il Sabato Santo sino alla Veglia pasquale (28).
4) L’astinenza deve essere osservata in tutti e singoli i venerdì di Quaresima, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità (come il 19 o il 25 marzo).
In tutti gli altri venerdì dell’anno, a meno che coincidano con un giorno annoverato tra le solennità, si deve osservare l’astinenza nel senso detto oppure si deve compiere qualche altra opera di penitenza, di preghiera, di carità.
5) Alla legge del digiuno sono tenuti tutti i maggiorenni fino al 60 anno iniziato; alla legge dell’astinenza coloro che hanno compiuto il 40 anno di età.
6) Dall’osservanza dell’obbligo della legge del digiuno e dell’astinenza può scusare una ragione giusta, come ad esempio la salute.
Non vorrei essere irriverente nel raccontare una battuta quando all’interno di un convento il padre guardiano aveva imposto ai frati il digiuno e la penitenza. A tutti i frati venne data una fetta di pane, ed essendoci poco olio nella bottiglia, ognuno doveva mettere poche gocce sul pane ricevuto a secondo di quante ne cadevano dicendo velocemente la frase: Kirye eleison. Quando la bottiglia arrivò a un frate, con una stazza molto grande, il frate anziché dire Kyrie eleison, lo cantò e tutto l’olio contenuto nella bottiglia finì sul suo pane, ma il resto dei frati restò a secco.
In questo breve intervento ho cercato di tracciare una sintesi, anche se il tema richiederebbe molto tempo. Grazie per il vostro ascolto.
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