Cammino di formazione per i catechisti: “Convertire la comunità. Da scuola/azienda a casa”

È iniziato il cammino di formazione per più di 300 catechisti della diocesi, una preziosa opportunità per approfondire come trasmettere la fede e accompagnare i bambini, i giovani e gli adulti. Dopo la pubblicazione, a maggio, del documento Il cammino della fede, chiamati dal Signore Gesù per seguirlo. – Scelte pastorali per l’annuncio e la catechesi – Itinerari per l’Iniziazione Cristiana”, e il convegno diocesano sulla catechesi organizzato sabato 14 settembre nella parrocchia San Michele Arcangelo, domenica 6 ottobre nel teatro della parrocchia Santa Maria delle Grazie si è svolto il primo incontro di formazione per i catechisti con don Emanuele Piazzai, direttore dell’Ufficio catechistico regionale delle Marche.

Il mondo in cui viviamo è cambiato ed è oggi urgente cambiare il modo di trasmettere la fede. Non si tratta di cambiare il Vangelo, ma il nostro modo di trasmetterlo. Come indica Papa Francesco è necessaria una nuova evangelizzazione. Dopo i saluti di Mons. Angelo Spina e del direttore dell’Ufficio catechistico diocesano don Sauro Barchiesi, don Emanuele ha parlato di come convertire la catechesi. Nel convegno del 14 settembre aveva indicato sei aspetti cardine per convertire la catechesi e domenica 6 ottobre ha approfondito il primo, spiegando che la prima cosa da fare è convertire la comunità, che spesso è considerata una scuola/azienda e invece deve diventare una casa. Per capire meglio cosa fare, c’è stata anche la testimonianza di tre catechiste della sua parrocchia di Ostra, che hanno raccontato una nuova modalità di catechesi che stanno sperimentando con i ragazzi.

Intervento di don Emanuele Piazzai: “Convertire la comunità. Da scuola/azienda a casa”

Sentirsi o non sentirsi a casa costituisce il criterio del giudizio dei singoli sulla Chiesa. Casa è uno spazio accogliente, che non devi meritarti, luogo di libertà e non di costrizione. Per molti la parrocchia, il gruppo, il movimento sono contesti di vero incontro, di amicizia e di condivisione. Chi si percepisce fuori dalla comunità cristiana spesso osserva invece dinamiche più simili a quelle di un contesto settario o di un “fan club”. Ci si sente estranei di fronte ad aree di specializzazione pastorale, che facilmente si traducono in ambiti di potere. Più che una casa, la comunità viene pensata come un centro erogazione servizi, più o meno organizzato, di cui si fatica a cogliere il senso. Perciò è urgente ripensare lo stile e le priorità della casa. Se accogliere e accompagnare diventano preminenti, tutto deve essere reso più essenziale, a cominciare da strutture e aspetti burocratici. La Chiesa-casa non ha porte che si chiudono, ma un perimetro che si allarga di continuo. Anche le comunità ecclesiali rischiano l’autoreferenzialità e la chiusura, o la creazione di “bolle”: gruppi in cui si vivono cammini di fede e di vita intensi, ma con poca disponibilità ad accogliere le novità, di persone e proposte. Tante “bolle” separate rendono le comunità frammentate, spazi in cui si rischia di dividersi poteri e ruoli, di essere esclusivi ed escludenti verso chi bussa. Per contrastare la sfida della frammentazione, a livello parrocchiale e diocesano, occorre investire nella costruzione di relazioni fraterne, valorizzando la pluralità delle sensibilità e provenienze come risorsa. In particolare, la testimonianza della carità è misura della capacità di aprirsi. (Dalla Sintesi nazionale della fase diocesana del Cammino Sinodale della Chiesa italiana, p.9).

Ciò su cui riflettiamo oggi non è un pallino nostro, ma è un’esigenza che tutta la Chiesa italiana sta riscoprendo, e sta mettendo a tema. Partiamo dal Progetto Diocesano che avete stilato: “Offrire un ambiente reale e non solo ideale della vita cristiana”. Questo dice una cosa decisiva: è una questione di stile. Cos’è lo stile? Richiama lo “stilo”, strumento usato per incidere nelle tavolette di cera e, nel solco, poter comunicare pensieri, idee, indicazioni. Ecco, lo stile è questo: un solco dentro il quale passa la comunicazione. Cosa riguarda lo stile di una comunità? Fondamentalmente due aspetti:

1- Le strutture
2- Le persone

Quale stile caratterizza una comunità scuola/azienda? Proviamo a tratteggiarne i lineamenti.

1- STRUTTURE

– Luoghi fisici. Spesso sono ambienti freddi, nel senso di anonimi, non curati, non personalizzati (“in fondo, non devono essere famigliari, l’importante è una stanza dove stare”). Immagine tipo: neon e perlinato, o le pareti scrostate o con appese immagini ingiallite o fatiscenti. Spesso sono “luoghi casermone”: si adattano a tutto. Uno entra e subito, solitamente, viene invaso da tristezza.

L’arredamento: spesso sono stanze in modalità “ufficio” o “aula scolastica” (quindi: scrivanie, sedie frontali, con un pc e tanti armadi/archivi, oppure banchi o simili con sedie). Nel 90% dei casi, le persone vengono ricevute in questi luoghi, e sono i primi/soli luoghi di vita che incontrano della comunità.

– Organismi della comunità. Mi riferisco solo alla catechesi qui: solitamente c’è il gruppo dei catechisti della parrocchia, che spesso ha due grandi compiti: programmare e reclutare, per poi chiedere l’approvazione del parroco. In questi organismi solitamente l’anima non è la preghiera: non si fa discernimento, la Parola di Dio non precede né accompagna gli incontri. Quasi sempre, a giochi fatti, si chiede al Signore di compiere quello che abbiamo già pensato noi! Generalmente questo gruppo è staccato da tutta la vita della comunità: organizza le sue cose, ha un suo calendario (a volte la sua Messa!) e una sua tabella di marcia da cui non si può sgarrare e alla quale tutto si deve adattare.

– Orari. Generalmente le proposte/riunioni vengono fatte dopocena o nei momenti festivi/di riposo… in generale, nei momenti in cui le persone sono libere da altro: è ovviamente giusto, non si potrebbe fare altrimenti, ma lo stile è quello aziendale, questa cosa appesantirà moltissimo, perché sarà “un’altra cosa da fare, un altro lavoro”. Spesso, tra l’altro, genera tensioni/immaturità nelle famiglie anche dei catechisti (“Mia moglie sta più in parrocchia che in casa!”).

– Proposte. Sono spesso proposte di questo tipo: servono a comunicare a qualcuno la verità, e a dirgli che cosa deve fare. La dinamica è più o meno questa: “Vieni e ti dico cosa devi fare”. Questo solitamente vale per:

a) catechismo dei ragazzi (“Ti siedi e mi ascolti per un’ora”).

b) riunioni e incontri con i genitori (“Ti siedi e ti do informazioni sulle varie proposte”).

c) Incontri con adulti vari e famiglie (“Ascoltami perché ho delle informazioni per te”).

Obiettivo finale: consegnare informazioni. Trasmettere, nel senso sbagliato del termine (sei un ripetitore distaccato). Da queste informazioni dipenderà il successo del nostro cammino (generalmente si fa a inizio anno un planning o piano di studi da seguire e poi si cerca, da qualche parte, il materiale da trasmettere). Solitamente si cerca di fare qualcosa che possa essere automatico, ovvero ripetibile tale e quale per generazioni (“Tanto sono sempre quelli!”), che non comporti una revisione (si cerca la formula perfetta).

2- PERSONE

Qual è l’obiettivo del loro stare insieme?

a) Produrre. Stiamo insieme perché dobbiamo fare. Il nostro obiettivo è produrre qualcosa. Finito questo compito, usciamo dal ruolo e ognuno continua la sua vita per i fatti suoi. Non esiste condivisione di vita, perché non serve, e non è il nostro compito: è il ruolo che ci tiene insieme. A volte anche forzatamente.

b) Creare la mia isola felice. Con queste persone mi trovo bene, con i soliti no (famiglia, amici etc.. mi sento a disagio), qui invece sto bene, posso essere me stessa e sbrodolare tutto. Rischio: quello dell’elìte, ovvero facciamo comunella perché siamo tutti uguali, non ci interessa di quello che accade accanto a noi, non si è aperti ad uno sguardo fuori.

Sinceramente: quanto le nostre comunità sembrano avere questo stile?

Ora proviamo a immaginare i tratti di una comunità che è casa.

Partiamo dalla parola d’ordine, il vero segreto: ospitalità. È una comunità ospitale, perché si è scoperta abitata dalla presenza di Dio. È una comunità che accoglie perché non ha per forza capito, ma ha accolto l’azione dello Spirito in lei.

1- PERSONE (La prima differenza: si parte dalle persone).

Qual è l’obiettivo del nostro stare insieme?

a) Condividere. Non in generale: abbiamo scoperto che qualcuno ci unisce, l’opera dello Spirito. La Sua azione si è intrecciata con la mia storia e anche con quella degli altri. Per questo ci riuniamo innanzitutto: per raccontarci la vita, per condividere ciò che siamo e ciò che ci sta succedendo (vd. Maria e Elisabetta). Sia in maniera “programmata”, sia anche in maniera informale (chi l’ha detto che ci servono per forza le riunioni per vederci?). Per farci la semplice domanda: Come stai? Per noi è liberante vederci!

b) Discernere. Quello che stiamo vivendo, cosa ci sta dicendo, cosa ci rivela? Vedere dove il Signore ci sta portando (essere strabici: un occhio guarda dentro e un occhio guarda fuori, alla vita della gente). Al centro di queste relazioni c’è la Parola di Dio:

Resta chiaro che la finezza dell’udito viene pian piano plasmata dalla Parola del Signore che apre l’orecchio e spalanca il cuore. L’autentico ascolto della Parola è l’antidoto contro il ripiegamento su di sé, la via verso una presenza incisiva nella realtà sociale e verso una crescente condivisione. In radice, l’ascolto della Parola e l’ascolto della vita sono il medesimo ascolto, perché il Signore si lascia incontrare nella vita ordinaria e nell’esistenza di ciascuno, ed è lì che chiede di essere riconosciuto.” (Conferenza Episcopale Italiana, Sintesi nazionale della fase diocesana, pp.4-5).

c) Coinvolgere. Nel senso giusto del termine: invitare a prendere parte a questa gioia. Senza ansie da prestazioni, senza costrizioni.

N.B. Questi non sono “dipendenti”: sono fratelli! Non devono dimostrare niente a nessuno, non devono portare i risultati al capo. Devono solo lasciarsi condurre insieme dal Signore. Sono pellegrini per le strade del mondo. La casa la fanno dove vanno, perché ce l’hanno nel cuore la casa!

2- STRUTTURE

– Luoghi fisici. Sono luoghi caldi. C’è desiderio che siano accoglienti, casalinghi, curati, adatti a una vita famigliare. La luce sarà calda, ci sarà qualche attenzione particolare (Divani? Colori caldi, immagini che aiutano il cuore ad aprirsi?). Sono luoghi che parlano di una vita che si vive lì dentro, quando entri sei invaso da calore. Sono luoghi che vanno costruiti piano piano, pezzo per pezzo, lasciandosi aiutare da coloro che camminano. Anche i lontani ci vedono una casa. Non per forza devono essere locali parrocchiali (case della gente?).

– Organismi. Mi riferisco solamente alla catechesi: il gruppo dei catechisti si sente dentro una grande famiglia, che è la comunità cristiana. Conosce le persone che svolgono dei servizi in parrocchia (il CPP in particolare), e condivide con loro il desiderio di raccontare un’esperienza che hanno fatto insieme. È un gruppo “contaminato” con le persone della comunità. Questo gruppo è mescolato con le famiglie dei ragazzi, e non solo: ha il desiderio di tessere relazioni abituali e non funzionali, gratuite; condivide con loro “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di tutti gli uomini”. Questo gruppo è una “cassa di risonanza” di ciò che accade a coloro che gli sono affidati. Sicuramente avrà un calendario (siamo umani!) ma, come in ogni famiglia, è pronto a rivederlo sempre, perché la vita è molto più complessa dei nostri rigidi schemi. “Le persone vengono prima delle cose da fare e dei ruoli”.

– Orari. Concretamente, apparentemente è come per la comunità “azienda”, con una enorme differenza: ritrovarsi insieme gli dà gusto, perché sono fratelli, appassionati. Allora può essere l’occasione per dare a quegli incontri uno stile diverso (Una cena? Una serata con tisane/cioccolata calda?) perché si è in famiglia.

– Proposte. Hanno questo obiettivo:

a) Accogliere le storie della gente, e scorgere tra le loro trame quella Presenza che ho trovato nella mia storia (N.B. Dio non è da portare, ma da scoprire).

b) Far riemergere le domande sepolte, che spesso sono le stesse mie.

c) Condividere come quella domanda l’hai vissuta tu, dove il Signore ti ha accompagnato (“Non ti do la rispostina, ti accompagno nel cammino) e come, lungo la strada, hai scoperto che i contenuti della fede sono veri, perché li hai scoperti veri sulla tua carne.

d) Libertà. Di rimanere, ma anche di ripartire. Non c’è l’obiettivo di “trattenere”. Il cammino sinodale parla di “armonizzare il desiderio di una Chiesa in uscita con una chiesa che sa far entrare”. Questo vale, prima di tutto, per adolescenti, giovani e adulti (vieni riscoperto come compagno nel cammino).

Obiettivo finale: “Perché anche voi siate in comunione con noi”. Io voglio condividere con più gente possibile la mia speranza, ciò che mi sta facendo vivere.

Sinceramente: quanto le nostre comunità sembrano avere questo stile?

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